lunedì 28 dicembre 2009

La filosofia comparata giapponese

Articolo sulla filosofia giapponese pubblicato dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19.


La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese.
di Cristiano Martorella
 
Occuparsi di filosofia giapponese in Europa e America presenta due difficoltà peculiari. La prima consiste nella distanza sia fisica sia culturale della società giapponese, con delle evidenti ricadute nell’ignoranza dei testi che costituiscono la base delle argomentazioni filosofiche orientali. La seconda difficoltà, molto più profonda e ostica, è di genere filosofico, e consiste nel rifiuto della diversità culturale. L’apice di questo rifiuto è stato raggiunto da Donald Davidson in Verità e interpretazione. Nel par.13 intitolato Sull’idea stessa di schema concettuale, Davidson sostiene che non possono esistere schemi concettuali completamente diversi perché altrimenti sarebbero inintelligibili e incomunicabili. L’argomentazione sembra quindi ridimensionare il concetto di diversità che potrebbe essere solo parziale. Ma è una argomentazione basata sull’equivoco del concetto della diversità considerata come opposizione e contrarietà, e soprattutto sul fraintendimento operato nell’identificazione generica di comunicazione e significato. In Rinnovare la filosofia, Hilary Putnam smaschera l’errore di Donald Davidson, ed evidenzia l’arbitrio e la forzatura operati nei confronti della nozione di significato. La concezione formalista di Donald Davidson che lega il significato al valore di verità (attraverso la convenzione v e la teoria tarskiana) mal si adegua a comprendere il relativismo concettuale che ci viene presentato dalla filosofia giapponese e dalle altre filosofie orientali. Ovviamente l’influenza della filosofia analitica, di cui Davidson è il più degno esponente, si ripercuote sulla considerazione dei sistemi filosofici orientali considerati banalmente come rappresentazioni esotiche completamente irrazionali. Se invece accettiamo di mettere da parte l’idea della diversità come opposizione e contrarietà, e ammettiamo piuttosto che la diversità include anche la condivisione dei differenti significati del mondo (pluralismo epistemico), possiamo procedere nella riflessione senza cadere nella semplificazione e strumentalizzazione dello scontro di civiltà (clash of civilizations) tanto di moda. Tenteremo quindi di comprendere la filosofia giapponese con uno studio comparato che non escluda le somiglianze e nemmeno le differenze, tutto ciò per il vantaggio che la conoscenza dell’altro può apportare.
La diversità epistemica della filosofia giapponese ha origine dai princìpi e fondamenti di carattere buddhista che ne sono alla base. Innanzitutto l’ontologia giapponese concepisce l’esistenza come un continuo cambiamento. Il divenire è possibile perché i fenomeni non avrebbero una sostanzialità. Secondo un celebre detto buddhista, il nulla costituisce la realtà fenomenica. Il fenomeno è ciò che è vuoto, il vuoto è ciò che è fenomeno (shiki soku ze ku, ku soku ze shiki). Nel Vajracchedika si afferma con altrettanta radicalità questo principio. Tutto ciò che ha forma è illusorio. E quando si vede che ogni forma è vuota si riconosce il Buddha. Tutte le cose sono Buddha. Questa teoria potrebbe apparire incoerente e contraddittoria se non fosse stata sviluppata con dovizia e logica dai maestri della filosofia orientale. Nagarjuna, che approfondì la teoria della vacuità e dell’insostanzialità dei fenomeni, indicò come ogni cosa fosse interdipendente nel cosmo, e quindi indicò l’impossibilità delle cose a sussistere in maniera indipendente. Ogni cosa non ha propria sostanza, ma esiste in virtù delle relazioni con le altre. L’unica realtà autentica è il cosmo nella sua totalità. Ogni fenomeno è semplicemente la manifestazione effimera e transitoria dell’esistenza mutevole del cosmo. Questo è il principio dell’impermanenza delle cose mondane (shogyo mujo).
Dunque il dharma (la dottrina di Buddha) contiene il nucleo filosofico che caratterizza l’Estremo Oriente. In esso si possono distinguere tre insegnamenti: ku (non-sostanzialità), ke (transitorietà), chu (via di mezzo). Si è già vista l’impermanenza o transitorietà delle cose, così anche la non-sostanzialità o vuoto. Il terzo principio, la via di mezzo, esprime una logica che rifiuta il dualismo vero-funzionale. Per la filosofia giapponese, la realtà è continuo cambiamento, quindi non si possono definire i fenomeni secondo le categorie di vero e falso che sono ipostatizzazioni, ovvero astrazioni distanti dal reale. Il mondo non è bianco oppure nero, non corrisponde a una logica binaria. Il principio della via di mezzo afferma che il reale è pluralismo e complessità. Questa valutazione del pensiero non è soltanto un rifiuto della logica vero-funzionale e una adesione alle logiche polivalenti, ma è soprattutto una differente considerazione del pensiero che è ritenuto uno strumento d’indagine piuttosto che una attendibile rappresentazione del reale. Se la conoscenza del reale non può avvenire tramite il pensiero, allora com’è possibile? Secondo la filosofia orientale la conoscenza del reale (prajna) avviene soltanto tramite un’illuminazione. L’illuminazione (satori) è la condizione della conoscenza che non separa il soggetto e l’oggetto. La conoscenza del reale è conoscenza dell’interdipendenza dei fenomeni e dell’impossibilità dei fenomeni a sussistere indipendentemente. L’illuminazione non è perciò una conoscenza speculativa, ma è pura intuizione, un’esperienza a cui si può giungere attraverso le tecniche meditative. Il non-dualismo è concepibile perché in base a quanto detto in precedenza, la non-sostanzialità presuppone che non vi sia una reale divisione fra i fenomeni, nemmeno fra soggetto e oggetto. Non potrebbe essere altrimenti poiché essi non hanno sostanza. La divisione avviene soltanto nella mente che possiede spiccate capacità analitiche. Il principio di esho funi (non-dualismo di ambiente e soggetto) ribadisce che la vita non è possibile fuori dal suo ambiente, e quindi le cose vanno concepite come sistemi complessi dotati di articolate relazioni piuttosto che come entità singole e indipendenti.
Adesso che abbiamo brevemente visto i fondamenti della filosofia giapponese, possiamo passare a considerare i rapporti con la filosofia occidentale. Quando nel XVI secolo gli studiosi giapponesi incontrarono la scienza europea, in quel periodo indissolubilmente legata alla filosofia, si posero immediatamente il problema di trovare delle definizioni che permettessero di inquadrare il nuovo sapere. L’arrivo della filosofia e scienza europea trovò un ambiente intellettualmente florido grazie alla filosofia buddhista già diffusa. Ciò implicò un necessario confronto fra il sapere orientale già acquisito e il nuovo sapere occidentale. I giapponesi cercarono di organizzare le conoscenze e gli studi occidentali con opportune definizioni. Inizialmente, nel XVI secolo, le avevano chiamate nanbangaku (scienze dei barbari del sud). Ma quando furono approfonditi gli studi nel periodo Edo (1603-1867) si preferì chiamarle rangaku (scienze olandesi) dal nome della nazione che aveva stretto rapporti commerciali intensi col Giappone. Nel 1774 Yoshinaga Motoki (1735-1794) pubblicò Tenchi nikyu yoho (Metodo sull’uso dei globi terrestri e celesti) che divulgava la teoria eliocentrica di Copernico. Nel 1784 Tadao Shizuki (1760-1806) scrisse Kyuryokuhoron (Saggio sulla legge gravitazionale) basandosi su un testo olandese. Nonostante i timori delle autorità politiche giapponesi, gli studi sul sapere occidentale prosperarono. Il riconoscimento del valore del sapere occidentale da parte degli studiosi giapponesi pose il problema di riconsiderare quanto già si era appreso dalla Cina e dall’India. I giapponesi assunsero un atteggiamento molto pratico. Invece di rigettare l’una o l’altra, considerarono la saggezza orientale e la scienza occidentale in base all’utilità concreta che potevano avere nei casi specifici. E questo atteggiamento fu tenuto anche nei confronti della filosofia. Ciò diede vita alla prima e unica filosofia capace di sintetizzare il pensiero orientale e occidentale. L’incontro con la scienza occidentale alla metà del XVI secolo non significò soltanto l’acquisizione delle conoscenze tecniche. I missionari gesuiti portarono con sé anche le opere di Aristotele, Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino. Il desiderio di confrontarsi con la filosofia europea era vivo negli studiosi nipponici. Choei Takano (1804-1850) aveva fornito nei suoi scritti una carrellata del pensiero filosofico da Talete a Kant. Fu proprio Takano a suggerire la prima traduzione della parola occidentale “filosofia” (dal greco philosophia). Era sua intenzione rendere il significato di un sapere generale e fondamentale. Perciò coniò il termine gakushi, traducibile all’incirca come conoscenza, sapienza, insegnamento. Ma nel 1874 si preferì adottare ufficialmente la parola tetsugaku inventata dal filosofo Amane Nishi (1829-1897). Il nuovo termine era composto da due caratteri: tetsu (saggezza) e gaku (scienza). I filosofi giapponesi intendevano la filosofia europea come una scienza che tramite la guida della ragione (ri) rendeva l’uomo capace di discriminare ogni conoscenza acquisita. Così come espresso dalla frase dori ni akaruku (diventare chiaro tramite la ragione). Come abbiamo mostrato, la filosofia orientale e la filosofia occidentale non sono necessariamente in opposizione. Molti autori europei hanno sviluppato la riflessione intorno alla realtà considerata come incessante cambiamento. I filosofi giapponesi hanno recepito ciò, e assunto gli studi di questi autori all’interno dei loro sistemi filosofici. Nel XX secolo la filosofia giapponese si concentrò sull’analisi delle opere di Hegel, Husserl e Heidegger, avvertiti come più consoni. Sulla spinta della dialettica hegeliana, molti filosofi giapponesi cominciarono ad elaborare una logica orientale in termini moderni. Kiyoshi Miki (1897-1945) scrisse Kosoryoku no ronri (La logica del concepimento del pensiero) in cui analizzava lo sviluppo delle idee nel mondo storico, e dunque la diversità propria di ogni civiltà. Kitaro Nishida (1870-1945) fu l’autore più prolifico e deciso nel sostenere l’esistenza di una logica giapponese. Riconsiderando la critica di Hegel al principio di non-contraddizione, Nishida cercò di individuare una logica dove la contraddizione è un’identità (mujunteki doitsu) costitutiva della realtà. Egli chiamò questa logica come logica del luogo (basho no ronri). Hajime Tanabe (1885-1962) elaborò una logica della specie (shu no ronri) e nell’opera Kagaku gairon (Introduzione alla filosofia della scienza) sostenne la peculiarità del pensiero giapponese. Risaku Mutai (1890-1974) in Basho no ronrigaku (Scienza della logica del luogo) riprese e sviluppò il lavoro di Kitaro Nishida, mostrandone l’ampiezza e le applicazioni che ne derivavano. Egli, come altri filosofi, critica l’opinione che la logica occidentale rappresenti la forma più corretta del pensiero, piuttosto la ritiene una costruzione congeniale a certe esigenze delle società occidentali. Tetsuro Watsuji (1889-1960) fu un sostenitore del nihonjinron (specificità della cultura giapponese) e nell’opera Fudo (Clima) cercò di evidenziare l’influenza dell’ambiente sulla civiltà. Satomi Takahashi (1886-1964) riconobbe diversi sistemi dialettici e il pluralismo delle logiche, e perciò ne tentò una sintesi nell’opera Ho benshoho (La dialettica onnicomprensiva). Lo sforzo dei filosofi giapponesi era evidentemente indirizzato a sviluppare una filosofia moderna che recuperasse i validi insegnamenti della tradizione orientale, consolidando le convergenze con la filosofia europea.
Recentemente lo studioso giapponese Daisaburo Hashizume nel saggio Bukkyo no gensetsu senryaku (La strategia verbale del buddhismo),  ha evidenziato la presenza di un filone delle tematiche del pensiero giapponese anche nella filosofia di Ludwig Wittgenstein. Secondo Hashizume, la filosofia del linguaggio di Wittgenstein sarebbe innanzitutto una critica alla logica vero-funzionale, e in secondo luogo, una alternativa al sistema concettuale occidentale fondato su una dialettica discorsiva e determinista, ma astratta. Non è del tutto infondato considerare come Wittgenstein abbia presto raggiunto, attraverso l’introduzione delle tavole di verità, i massimi sviluppi della logica vero-funzionale. E notare, soprattutto, quanto ne sia rimasto insoddisfatto, al punto di cambiare completamente l’approccio ai problemi filosofici e linguistici. Hashizume passa ad analizzare le strategie del buddhismo per il raggiungimento del satori. Egli paragona il gioco linguistico (Sprachspiel) di Wittgenstein alle tecniche del buddhismo per raggiungere lo stato di illuminazione. Il satori presenta gli stessi problemi del sistema filosofico basato sul gioco linguistico. Ad esempio, il paradosso della percezione del dolore. Wittgenstein aveva visto in frasi come io provo dolore ed egli prova dolore, una diversità dovuta a una ricaduta fenomenologica. Provare dolore è un’esperienza singolare e la sua espressione verbale (io provo dolore) è differente dall’espressione verbale del dolore altrui che non conosciamo (egli prova dolore). Resta quindi un elemento indiscernibile che la grammatica non rivela pienamente. Hashizume individua nello stato di satori una analogia. Noi non conosciamo cosa sia il satori. Per sapere che cos’è dobbiamo raggiungerlo. Ma nel momento in cui l’abbiamo raggiunto, come facciamo a sapere che è davvero il satori? Questo problema nasce da una trappola linguistica. Fondando la conoscenza esclusivamente su una base linguistica, perdiamo la maggior parte delle facoltà che ci permettono di agire sulla realtà. Per risolvere questa difficoltà, riconoscendo l’imprescindibile concretezza del linguaggio immerso nella realtà, Wittgenstein introduce il concetto di seguire una regola. Hashizume riconosce nel “seguire una regola” una prassi simile alla tecnica del Buddhismo. Gli orientalisti hanno ben presente la nozione di do, seguire una via, e come venga realizzato. Il maestro indica, non spiega cosa fare. Egli mostra una procedura, l’allievo la ripete. Inconsapevole di tale tradizione, anche Wittgeinstein però ne applicò il metodo. Le sue lezioni erano molto simili a sedute in cui gli allievi vengono interrogati attraverso l’uso di un koan (quesito). Che Wittgenstein praticasse tale tecnica ci è testimoniato dalle sue stesse opere che restano enigmatiche se non si interpreta correttamente il modo d'operare dell'autore. Ma vediamo da vicino questi esempi di koan di Wittgenstein.
 "Potrebbe una macchina pensare?" (Ricerche filosofiche, Par.359)
 "La sedia pensa tra sé e sé: dove? In una delle sue parti? O fuori dal corpo?" (Ricerche filosofiche, Par.360)
 "Ho intenzione di partire domani. Quando hai l'intenzione? Continuamente o a intermittenza?" (Zettel, Par.46)
 "Considera il comando: Ridi sinceramente a questa battuta di spirito!" (Zettel, Par.51)
 "Che cosa vuol dire: la verità di una proposizione è certa?" (Della certezza, Par.193)
 "Dunque, se dubito, o non sono sicuro, che questa sia la mia mano, perché allora non devo anche dubitare del significato di queste parole?"  (Della certezza, Par.456)
Nessuno di questi quesiti può avere una risposta precisa. Al contrario di ciò che accade per le domande della consueta tradizione filosofica occidentale. Come i koan, la risposta è al di fuori dei concetti inquadrati dalla domanda. Wittgenstein ci mostra come l'imbarazzo o il paradosso dei suoi quesiti nascano dalla mancanza di chiarezza del linguaggio e gli inganni provengano da ciò. Per comprendere le sue domande dobbiamo distruggere l'apparato di preconcetti che controllano la nostra mente. Ed è ciò che da secoli ci insegna la filosofia giapponese.

Bibliografia

Davidson, Donald, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.
Nishida, Kitaro, La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, L’Epos, Palermo, 2005.
Nishida, Kitaro, L’io e il tu, Unipress, Padova, 1997.
Nishida, Kitaro, Il corpo e la conoscenza, Cafoscarina, Venezia, 2001.
Nishitani, Keiji, La religione e il nulla, Città Nuova, Roma, 2004.
Putnam, Hilary, Rinnovare la filosofia, Garzanti, Milano, 1998.
Saviani, Carlo, L’Oriente di Heidegger, Il Melangolo, Genova, 1998.




Articolo tratto dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, La Verità e il Luogo. Convergenze e divergenze fra la filosofia occidentale e giapponese, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.14-19.

martedì 15 dicembre 2009

Bodai

Saggio sul concetto di illuminazione nel buddhismo pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Bodai.

L’Associazione Culturale Eumeswil ha organizzato con il patrocinio del comune di Firenze, un ciclo di conferenze su un tema prefissato riguardante la spiritualità, la tradizione e la conoscenza di sé. Il giorno sabato 5 maggio 2007, alle ore 17.00, si è svolta presso l’Educandato Statale SS. Annunziata in Firenze, la conferenza intitolata “Il satori nel buddhismo zen”. Il relatore cercherà con la seguente relazione di riassumere e approfondire i temi trattati.


Bodai, il risveglio dell’autentico essere
di Cristiano Martorella

Il concetto di illuminazione, pur essendo fondamentale e centrale nel buddhismo, non è affatto chiaro e definito, restando per sua stessa natura ineffabile e sfuggevole. Eppure, il Buddha storico, Shakyamuni, acquisisce il titolo di Buddha in virtù della sua illuminazione. In sanscrito illuminazione si dice bodhi, termine tradotto in giapponese con le parole bodai e satori. Una persona che ha raggiunto l’illuminazione, la bodhi, è perciò detta Buddha. Quindi si è Buddha soltanto tramite l’illuminazione. Tuttavia l’illuminazione non può essere conosciuta da chi non l’ha raggiunta perché l’illuminazione è un’esperienza. Il paradosso è evidente. Si parla dell’illuminazione di Buddha pur senza avere un concetto chiaro di cosa sia. Si ammette, per definizione, che sia inconoscibile se non si è Buddha. Buddha soltanto possiede l’esperienza dell’illuminazione. Per quale motivo non esiste un concetto chiaro di illuminazione? Questo avviene perché l’illuminazione non è un concetto e nemmeno un’idea o intuizione. L’illuminazione è un’esperienza. Esperienza di cosa? Semplicemente l’esperienza dell’illuminazione. L’illuminazione è un’esperienza per sé che non ha un oggetto o contenuto particolare. Quindi si può dire per esteso e più chiaramente che l’illuminazione è l’esperienza di una condizione, uno stato d’essere. Però la difficoltà nella comprensione della questione è soltanto evidenziata, non è ancora risolta. L’illuminazione è un’esperienza. Quindi, come qualsiasi esperienza, essa innanzitutto si prova, viene esperita, sperimentata. La descrizione verbale non trasmette affatto l’esperienza (1). Questa caratteristica dell’illuminazione ha costretto alcune scuole zen, come la setta Rinzai, ad adottare una strategia verbale che ha lo scopo di mostrare il limite della parola, e quindi superarlo. Al contrario, la setta Soutou, pratica una meditazione silenziosa chiamata zazen, consistente nello stare seduti in silenzio. Anche se opposti questi metodi sono entrambi validi (2). La validità di una pratica buddhista si misura sui risultati e gli effetti conseguiti. Non è un’astratta elaborazione. La verifica è l’unico criterio accettabile (3). Il Buddha spiegava che i suoi insegnamenti sono espedienti, mezzi per conseguire la buddhità. Lo scopo del buddhismo non è il rituale, lo scopo è l’illuminazione. Essendo l’illuminazione un’esperienza, è perciò strettamente personale. Per questo motivo i metodi adottati devono adeguarsi alla persona particolare. L’abilità nell’usare espedienti diversi adatti alle singole persone e alle particolari situazioni era una capacità del Buddha. I mezzi (4) possono essere i più disparati : un discorso, una commissione, un gesto, il lavaggio dei panni, il dono di un fiore. L’importante è suscitare l’introspezione del sé e la compenetrazione delle cose, toccando le corde sensibili della personalità di un essere umano.
Il carattere strettamente personale dell’illuminazione è descritto dall’espressione soku shin soku butsu, il Buddha è il proprio cuore. L’aspetto personale dell’illuminazione si comprende meglio da uno studio dei testi buddhisti, in particolare gli ultimi e più recenti come il Sutra del Loto e il Sutra della Ghirlanda, i quali ribadiscono che la natura di Buddha appartiene a tutti gli esseri viventi. Quindi tutti hanno davvero l’illuminazione, semplicemente non sanno di possederla. Fin qui si è detto qualcosa di più circoscritto circa l’illuminazione: è un’esperienza che tutti possiedono. Così ci sono le coordinate che permettono di individuare ciò di cui parliamo. L’ultima coordinata che Buddha ci fornisce è la purezza. La purezza si ottiene eliminando gli agenti tossici che inquinano la mente. Questi agenti tossici sono chiamati i tre veleni (san doku). Essi sono ira (ikari), desiderio (musabori) e ignoranza (oroka). Il buddhismo ha suggerito in epoche diverse soluzioni alternative ai tre veleni. Il buddhismo Hinayana suggeriva preferibilmente l’affrancamento dai tre veleni tramite le porte che conducono alla liberazione, ossia il riconoscimento del non sé, non desiderio, non forma. Questi insegnamenti ci dicono che non esistono forme permanenti , tutto è transitorio, anche il sé e il desiderio. Il buddhismo Mahayana più semplicemente suggerisce di trasformare i tre veleni. L’ira in forza vitale, il desiderio in compassione, e l’ignoranza in saggezza. Insieme alla purificazione dai tre veleni, il buddhismo pratica la visione e contemplazione della propria mente (kanjin). Infatti è importantissimo conoscere la propria mente per comprendere la natura delle illusioni e trasformare gli agenti tossici. Questa pratica avviene attraverso la meditazione.
In conclusione, lo scopo del buddhismo, e in particolare dello zen, è liberare la vita da scopi artificiosi e innaturali rivelandone il suo autentico potenziale. Lo zen si presenta sempre come contraddittorio e inafferrabile perché non accetta appunto qualsiasi genere di manipolazione e strumentalizzazione. Ogni volta che si tenta di fissare la mente a qualcosa, immediatamente lo zen lo nega. Se ci si rivolge alla negazione, nega anche quest’ultima. La verità non è in qualcosa, la verità è in tutto. La mente offuscata è capace soltanto di discriminare e distinguere, viceversa la mente illuminata è capace di comprendere e compenetrare. Per questo motivo la mente dello zen è più vicina alla mente di un bambino che gioca, ed è lontanissima dalla mente di chi è convinto delle opinioni e tronfio delle certezze. Dogen affermava che tenendo la mano aperta in un deserto passerà tutta la sabbia trasportata dal vento, mentre tenendo la mano chiusa si stringeranno pochi granelli. Lo zen insegna a concepire le opportunità e rifiutare il possesso di ciò che può divenire un ostacolo per la vita. Un esempio della mente ingannevole è fornito dall’immagine della scimmia che si agita e tormenta perché non riesce ad afferrare il riflesso della luna nell’acqua. Quante volte la mente umana si comporta così, tormentandosi e agitandosi nel tentativo di possedere qualcosa? Una domanda senza soluzione è sufficiente a gettare nell’angoscia e nelle tribolazioni. Pur essendo evidente la dannosità di un simile atteggiamento, non si riesce ad evitarlo. La mente non è addestrata a rifiutare la tentazione delle cattive abitudini. La pratica dello zen consiste nello sforzo supremo di imparare a guidare la mente, e non farsi trascinare e controllare dalla mente ingannata e ingannevole. Si comincia osservando la mente e imparando a conoscerla. Quando ciò è avvenuto, la mente non è più un avversario che si scontra con la realtà, ma un compagno di viaggio.
L’esperienza dell’illuminazione consiste nella consapevolezza del non dualismo fra soggetto e ambiente (esho funi), ossia nella compartecipazione nell’identità di individuo e universo. Questa consapevolezza porta al superamento di tutti quei fuorvianti dualismi che ostacolano la vita. Così si comprende il non dualismo di maestro e allievo (shitei funi), e soprattutto il non dualismo di corpo e mente (shikishin funi). Se il mondo è il contenuto della propria coscienza, ossia ciò che percepiamo e pensiamo, è anche vero che la coscienza è una creazione del mondo. L’ambiente ha formato e sviluppato l’individuo. Chi crea è contemporaneamente il creato e il creatore. Riconoscere questo dualismo nella sua autentica natura di identità significa possedere l’illuminazione (bodai).

Note

1. Per questo motivo i maestri zen dicono che l’insegnamento del buddhismo può avvenire soltanto da cuore a cuore (ishindenshin).
2. La meditazione silenziosa è detta in giapponese mokusho zen, la meditazione sulle parole è invece detta kanna zen.
3. Anche il Dalai Lama insiste sulla necessità della verifica nella pratica buddhista. La fede cieca è un flagello e pericolo per le religioni che divengono così intolleranti e fanatiche. Cfr. Dalai Lama, La compassione e la purezza, Rizzoli, Milano, 1995, pp.90-91.
4. Espedienti o mezzi, in sanscrito upaya, in giapponese hoben.

Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Storia del buddhismo Ch’an, Mondadori, Milano,1992.
Alteriani, Fulvio, Zen. Filosofia, arte della vita, pratica quotidiana, Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1996.
Eco, Umberto, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962.
Guareschi, Fausto Taiten, Guida allo zen, De Vecchi Editore, Milano, 1994.
Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
Izutsu, Toshihiko, La filosofia del Buddhismo Zen, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1984.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori. Relazione del corso di Filosofia del Linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Martorella, Cristiano, La Verità e il Luogo, in "Diogene Filosofare Oggi", anno II, n. 4, giugno-agosto 2006.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.
Martorella, Cristiano, Il pluralismo del doppio, in "LG Argomenti", n.3, anno XXXVIII, luglio-settembre 2002.
Puech, Henri-Charles, Storia del Buddhismo, Laterza, Bari, 1984.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Manual of Zen Buddhism, Rider and Company, London, 1974.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Zen and Japanese Culture, Bollingen Series, New York, 1959.
Vattimo, Gianni, Al di là del soggetto, Feltrinelli, Milano, 1981.
Vattimo, Gianni, Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano, 1974.
Vattimo, Gianni, La fine della modernità, Bompiani, Milano, 1985.
Vattimo, Gianni, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano, 1979.
Watts, Alan, Lo Zen, Bompiani, Milano, 1959.
Watts, Alan, La via dello Zen, Feltrinelli, Milano, 1960.
Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, Arcana Editrice, Milano, 1973.

sabato 12 dicembre 2009

Beat zen

Articolo sul beat zen pubblicato dal sito Nipponico.com.

Beat zen
La filosofia giapponese fra pop e new age
di Cristiano Martorella

6 febbraio 2003. La definizione di beat zen fu formulata da Alan Watts nel tentativo di chiarire la sua posizione rispetto al successo popolare che lo zen stava avendo in America negli anni ’50. Alan Watts introduceva una distinzione fra beat zen e square zen utilizzando una terminologia già esistente e di estrema attualità (1). Con square zen si indica lo zen istituzionalizzato delle scuole Soto e Rinzai, mentre con beat zen si definisce lo zen popolare e volgarizzato, spesso collegato a movimenti artistici. Le parole square (quadrato) e beat (fallito) provengono dal linguaggio hipster degli anni ’50. Square, il conformista, si opponeva a beat, alla gioventù bruciata che viveva nelle strade e nelle comunità artistiche. Alan Watts non si schiera a favore di un genere di zen contro l’altro, e con saggezza mostra quanto sia sconveniente creare una simile contrapposizione poiché lo zen è meno formale di quanto si creda. La gerarchia e l’istituzionalizzazione è avvenuta soltanto dopo un processo storico che ha assorbito lo zen nella società.

"Nel corso dei secoli, comunque il processo di rifiuto dell’insegnamento e il rispondere alle domande con altre domande è diventato sempre più formale. Sono sorti dei templi e degli istituti dove viene impartito un vero e proprio insegnamento e questo a sua volta ha creato problemi di proprietà, amministrazione e disciplina costringendo il buddhismo zen ad assumere la forma di una gerarchia di tipo tradizionale. Nell’Estremo Oriente questo fenomeno è continuato fino a divenire parte del paesaggio e alcuni dei suoi inconvenienti sono annullati dal fatto che sembra essere del tutto naturale. Non vi è nulla di “esotico o speciale” in questo fenomeno. Anche le cose organizzate possono crescere con naturalezza. Ma a me sembra che trapiantare questo stile zen in Occidente sarebbe una cosa del tutto artificiale." (2)

Alan Watts non intende favorire un genere di zen a discapito di un altro. Addirittura arriva a dire che beat zen e square zen possono completarsi a vicenda per dare vita a una forma di zen pura e vivace. Comunque, se si può giungere al satori (illuminazione) seguendo ambedue le vie, Watts coglie l’occasione per far notare gli errori dei seguaci di entrambe le scuole. Gli studiosi formali dello zen hanno la tendenza ad attribuire un valore eccessivo alle idee e ai concetti, studiando rigorosamente i testi e dimenticando che essi sono soltanto dei mezzi. Addirittura assumono un atteggiamento snob che rifiuta la spontaneità e la creatività. Perfino Suzuki Daisetsu fu considerato nelle università americane come un semplice divulgatore, piuttosto che uno studioso serio e originale. Ciò avvenne perché si dava troppa importanza alla sistematicità e al rigore scientifico. L’altro errore è costituito dall’attrattiva che le religioni esotiche esercitano sugli occidentali. Spesso si tratta di un interesse nato dall’insoddisfazione per le religioni monoteiste, però è una curiosità che rimane a un livello superficiale e immaturo, piuttosto confuso, qualcosa che ricorda le tendenze mistiche del movimento new age. Alan Watts cerca di mettere in evidenza, e a nostro giudizio vi riesce, le motivazioni che spingono ad abbandonare le religioni monoteistiche nel mondo moderno.

"L’universo giudaico-cristiano è un universo in cui il bisogno morale, l’ansia di essere nel giusto abbraccia e penetra ogni cosa. Dio, l’Assoluto stesso, è il bene opposto al male e così essere immorali o sbagliare significa sentirsi un esiliato non solo dalla società umana ma anche dall’esistenza stessa, dalla radice e dalla base della vita. Sbagliare suscita quindi un’angoscia metafisica e un senso di colpa - uno stato di dannazione eterna - del tutto sproporzionato al crimine commesso. Questa colpa metafisica è così insopportabile che infine sfocia nel rifiuto di Dio e delle sue leggi, che è proprio quello che è successo al movimento del secolarismo, del materialismo e del naturalismo moderni. La moralità assoluta distrugge profondamente la stessa moralità, perché le sanzioni che invoca contro il male sono eccessive. Non ci si cura il mal di testa tagliandosela. Il fascino dello zen, come quello di altre forme di filosofie orientali, è dato dal fatto che questo rivela, dietro al regno incalzante del bene e del male, una vasta regione di se stessi per la quale non è necessario sentirsi in colpa o fare recriminazioni, dove infine l’io non è distinto da Dio." (3)

Alan Watts suggerisce qualcosa di molto acuto per evitare l’errore appena descritto.

"Ma l’occidentale che è attratto dallo zen e che è in grado di capirlo profondamente deve avere un attributo indispensabile: deve capire la propria cultura in modo così completo da non venir più influenzato inconsciamente dalle sue premesse." (4)

Questa affermazione è condivisibile, e aggiungiamo che costituisce una convalida a quanto abbiamo sostenuto riguardo al concetto di specificità giapponese (5). La specificità giapponese può essere compresa soltanto se conosciamo bene la cultura occidentale, perché specificità e universalità sono unicamente le due facce della stessa medaglia, la realizzazione concreta di storia e cultura. Comprendere il processo universale della storia permette di distinguere l’autentica specificità delle differenti culture, altrimenti si resta a un livello astratto. Alan Watts sposta questo concetto all’ambito individuale. Ed è corretto procedere così. Bildung (formazione) della persona e disciplina zen coincidono secondo un modo un po’ riduttivo ma efficace d’intendere il buddhismo. Eppure c’è qualcosa di molto più sottile e sconvolgente nella pratica zen. Sekida Katsuki lo spiega attraverso la lezione della filosofia di Edmund Husserl.

"Husserl dice che l’io come persona, come una cosa nel mondo va eliminato attraverso la riduzione fenomenologica. L’io come una cosa nel mondo è in effetti l’attività abituale della coscienza, che è gravata da un confuso pensiero illusorio. Quello che Husserl dice può essere riassunto nell’asserzione che se si arresta l’attività della coscienza abituale, anche il confuso pensiero illusorio nell’esperienza personale, psicologica, individuale, scomparirà, e apparirà al suo posto la pura coscienza. Se questa interpretazione è corretta, allora possiamo dire soltanto che questo è esattamente quello che cercano di fare gli studenti di zen, quando siedono sui loro cuscini." (6)

La ricerca della pratica zen risiede nel tentativo di liberare la coscienza dai suoi condizionamenti. Anche Alan Watts è chiaro su questo punto.

"Per ragioni piuttosto diverse i giapponesi tendono a trovarsi a disagio nei confronti di se stessi tanto quanto gli occidentali, visto che possiedono un senso del rispetto umano acuto quasi quanto il nostro più metafisico senso del peccato. Questo si verificava soprattutto nella classe più sensibile allo zen, quella dei samurai. Ruth Benedict […] aveva perfettamente ragione quando diceva che l’attrazione che la casta dei samurai provava per lo zen derivava dal potere che questa dottrina aveva di liberare da un’autocoscienza estremamente imbarazzante, dovuta al tipo di educazione impartita ai giovani. Di questa autocoscienza fa parte quell’obbligo che i giapponesi sentono di competere con se stessi, un obbligo che riduce ogni arte e sapere a una maratona di autodisciplina. Anche se l’attrazione esercitata dallo zen consiste nella possibilità che esso offre di liberarsi da questa autocoscienza, la versione giapponese dello zen combatteva il fuoco con il fuoco, superando “l’io che osserva se stesso” con il portarlo a un’intensità tale da farlo esplodere." (7)

Lo zen giapponese è dunque “il superamento del superamento”, la filosofia che permette di giungere all’assoluto tramite il particolare portato all’eccesso. Queste considerazioni ci permettono di analizzare il valore dello zen dal punto di vista delle scienze sociali. Nonostante i severi e corretti rimproveri rivolti da Franco Ferrarotti (8) al movimento new age, ci sembra che si possa fornire un’ulteriore analisi non del tutto negativa.
Secondo Gianni Vattimo il pensiero occidentale moderno è superamento e fondazione (9). Queste due istanze si troverebbero nella logica dello sviluppo che sarebbe stata abbandonata dalla postmodernità. Le caratteristiche della postmodernità sarebbero la desecolarizzazione, la fine delle grandi narrazioni e la crisi dell’idea di progresso. La desecolarizzazione coincide con l’abbandono del pensiero positivista e il ritorno alle credenze spirituali, come appunto la new age. Eppure non corrisponde all’esperienza di queste religioni la rinuncia all’idea di superamento e progresso, anzi subisce un’accelerazione. L’influenza dello zen sposta il superamento al “superamento del superamento”. Una contraddizione soltanto apparente: il superamento del superamento è esso stesso superamento. Poiché lo zen non elimina il soggetto ma lo riunifica all’universo, eliminandolo soltanto come cosa isolata nel mondo, l’interpretazione qui presentata della postmodernità non è corretta. L’idea di superamento non è eliminata. Gianni Vattimo rimane ancora imprigionato nella logica occidentale che concepisce il superamento come eliminazione, una logica che Georg Hegel aveva indicato come fallace e aveva sostituito con la fenomenologia dello spirito.

Dunque il concetto di postmodernità è fuorviante per capire new age, cultura pop e beat zen. New age e beat zen non contrappongono modernità e antichità, piuttosto operano una sintesi. La contaminazione di moderno e antico non deve scandalizzare perché il criterio dello zen non pone al centro del sapere un dogma, al contrario apre il mondo alle infinite possibilità dell’esistenza. Se il movimento new age è criticabile per i molti difetti che lo caratterizzano, ciò non deve escludere che possa avere qualche influenza vantaggiosa, ad esempio l’avvicinamento, anche superficiale, alla filosofia orientale. Condannare la cultura popolare contemporanea è un comportamento snob tipico degli intellettuali che si atteggiano in modo saccente, ma anche esaltare la cultura pop in contrapposizione al passato o ad altre forme culturali è un comportamento esasperato e ingiustificato. Passato, presente e futuro non sono mai contrapposti nella cultura che essendo viva è capace di evolversi continuamente superando qualsiasi dicotomia. Perciò gli scritti di Alan Watts su beat zen e square zen sono un esempio di equilibrio e buon senso da seguire. C’è poi da sottolineare il fatto che la religione non è soltanto una questione fra dotti, ma riguarda una moltitudine di persone. Escludere l’aspetto popolare della religione significa eliminare il senso profondo della religione: creare un legame fra i membri di una comunità. L’etimologia della parola religione proviene dal latino relegere (raccogliere).

Note

1. Alan Watts discusse l’argomento del beat zen in alcuni saggi, e in particolare in Beat Zen, Square Zen e Zen pubblicato su “The Chicago Review” (estate 1958). Questi interventi sono stati raccolti in volume e tradotti in italiano: Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, traduzione di Piero Verni, Arcana Editrice, Milano, 1973.
2. Cfr. Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, nuova edizione, traduzione di Piero Verni, Aries/Arcana Editrice, Milano, 1996, p.61.
3. Ibidem, p.68.
4. Ibidem, p.68.
5. Cristiano Martorella, Il concetto giapponese di economia, Relazione al XXV convegno di studi sul Giappone, Venezia, 6 ottobre 2001.
6. Cfr. Sekida, Katsuki, La pratica dello zen. Metodi e filosofia, Astrolabio, Roma, 1976, p.170. Per il riferimento alla riduzione fenomenologica si consulti: Husserl, Edmund, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, traduzione di Enrico Filippini e Giulio Alliney, Einaudi, Torino, 1965.
7. Cfr. Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, nuova edizione, Aries/Arcana Editrice, Milano, 1996, p.63.
8. Ferrarotti, Franco, La verità? È altrove. All’insegna della new age, Donzelli Editore, Roma, 1999.
9. Cfr. Vattimo, Gianni, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985, pp.10-11.

Bibliografia

Alteriani, Fulvio, Zen. Filosofia, arte della vita, pratica quotidiana, Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1996.
Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
Izutsu, Toshihiko, La filosofia del Buddhismo Zen, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1984.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori, Relazione del corso di Filosofia del Linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Martorella, Cristiano, Quando Uzume salvò il mondo con una risata, Relazione del corso di Linguistica, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Puech, Henri-Charles, Storia del Buddhismo, Laterza, Bari, 1984.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Manual of Zen Buddhism, Rider and Company, London, 1974.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Zen and Japanese Culture, Bollingen Series, New York, 1959.
Watts, Alan, La via dello Zen, Feltrinelli, Milano, 1960.
Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, Arcana Editrice, Milano, 1973.

domenica 6 dicembre 2009

Hipster e influenze zen

Articolo sul rapporto fra hipster e buddhismo zen pubblicato dal sito Nipponico.com.

Hipster e influenze zen
Le tendenze pop fra arte e religione
di Cristiano Martorella

24 febbraio 2003. Negli anni '50 e '60 del secolo scorso vi fu un crescente e vivace interesse per la religione orientale in Europa e America. Oltre all'apprezzamento crescente dell'induismo, manifestato anche dal complesso pop dei Beatles con un viaggio in India e la produzione di un disco da parte di George Harrison per gli Hare Krishna, vi fu l'interesse per un'altra corrente religiosa, ossia lo zen giapponese. Gli artefici del boom dello zen in Occidente furono Suzuki Daisetsu in America e Deshimaru Taisen in Europa, i quali con i loro viaggi, le conferenze e le pubblicazioni fornirono un'esposizione non superficiale dello zen. Questo interesse non si limitò agli ambienti accademici, ma esplose in particolare nelle tendenze artistiche del periodo. Non è affatto indebita l'associazione fra lo zen e le arti poiché era già presente nella matrice originaria giapponese (1). L'arte è anche una componente essenziale del movimento hipster (in giapponese hippusuta) che rifiuta la american way of life. Nati nelle comunità artistiche della North Beach di San Francisco e del Village di New York, gli hipster adottarono lo zen come giustificazione del loro disimpegno sociale. Infatti lo zen tradizionale criticava l'artificiosità della società esaltando il potere di liberazione dell'individuo attraverso l'autocoscienza. Gli hipster si ribellarono al sistema attraverso un totale disimpegno, non cercando di cambiare l'ordine sociale, ma escludendosi. Un atteggiamento radicale e perciò maggiormente ribelle.
Nell'arte zen gli hipster trovarono una legittimazione della loro concezione estetica della vita e della loro poetica spontanea e informale. Viceversa hipster, beatnik e hippy furono anche un laboratorio sperimentale a cui fecero riferimento le arti d'avanguardia dal 1947, periodo di nascita dell'action painting di Jackson Pollock, fino agli anni '60 e '70 e al consolidamento dell'esperienza dei gruppi Fluxus e Gutai. Sarebbe inesatto ritenere conclusa la parabola di queste correnti artistiche che sono ancora influenti. Piuttosto dagli anni '80 si è assistito a un riconoscimento dell'arte ribelle che ha coinciso con un inserimento nei musei e uno studio accademico, il quale snatura il carattere trasgressivo e contestatario. Questa osservazione vale anche per l'utilizzo dell'espressione subcultura che si rivela utile come etichetta sociologica, ma fuorviante per la comprensione dei reali fenomeni storici. Come si è detto in precedenza, dagli anni '80 in poi si è assistito a una normalizzazione dell'arte pop che divenne inglobata e divorata dal marketing delle aziende. L'industria della cultura nata con la società del consumo di massa non ha risparmiato le avanguardie, trasformando in merce anche i fenomeni di contestazione più radicali. Però non si può nemmeno affermare che le avanguardie siano le vittime inermi della omologazione. Infatti sono state le avanguardie, e i gruppi artistici sperimentali come gli hipster, a sostenere uno spirito egualitario e una concezione estetizzante della vita che condannava l'arte elitaria (2). Essi stessi hanno contribuito a formare una cultura di massa e a far uscire l'arte dai suoi confini tradizionali. Inoltre l'uso dei mass media distribuisce una visione generale estetizzata della vita. Piuttosto che informazione i mass media producono consenso e un sentire comune. Eppure questa concezione estetizzante era il proponimento degli hipster. E questo proposito non si è fermato qui.
La cultura di massa utilizza ampiamente l'arte pop nata spontaneamente e trasgressivamente. Perciò è fuorviante contrapporre cultura e subcultura. La cultura così come intesa nel XIX secolo non esiste più. Se dovessimo contrapporre cultura di massa e subcultura sarebbe una contraddizione in termini. Non può esistere una cultura di massa alla quale si esclude una cultura di gruppo. La cultura di massa arriva ovunque, specialmente nell'attuale mondo globalizzato, e ce ne accorgiamo studiando le subculture. Infatti esse si appoggiano sul potere pervasivo dei mass media (radio, televisione, internet, etc.). Se parliamo di subculture è esclusivamente per motivi di carattere accademico. Infatti è molto più comodo restringere un argomento di studio etichettandolo invece di stabilire i rapporti fra i fenomeni culturali più complessi. Al contrario la cultura pop nega una contrapposizione fra cultura alta e cultura di base, a favore di un'arte egualitaria come fatto estetico integrale. Chi continua a utilizzare la terminologia della subcultura si rivela decisamente conservatore riproponendo la distinzione fra cultura alta e bassa. Ed è evidente nello stesso termine subcultura (qualcosa che sta sotto).
Per questi motivi non è indebito studiare l'influenza che lo zen tradizionale ebbe sui movimenti popolari occidentali in tutte le sue forme. Alan Watts fu il primo occidentale a mettere in risalto quanto fosse insensato contrapporre lo zen tradizionale studiato nelle università allo zen eclettico e folcloristico degli hipster (3). Lo zen non è una disciplina formale anche se ha assunto degli aspetti istituzionali. La pratica dello zen è la ricerca del risveglio spirituale, la liberazione (gedatsu) dalle convenzioni che non permettono d'avere la conoscenza della natura autentica dell'universo. Come ciò accada è indifferente, e i maestri zen sono consapevoli di quanto l'illuminazione (satori) sia un fatto individuale. Un aspetto rimarcato dal detto "se incontri Buddha uccidilo", una affermazione che va intesa come il ridimensionamento dell'insegnamento tramite un maestro (4). Uccidere Buddha quando lo si incontra significa distruggere la speranza che qualcuno all'infuori di noi possa essere il nostro padrone. Uccidere il maestro era un'espressione già usata da Rinzai Gigen nel IX secolo.
Nel 1959 Umberto Eco riprese e commentò il saggio di Alan Watts criticando l'idea che potesse esserci un'autentica influenza dello zen nelle mode culturali occidentali (5). Secondo Eco lo zen era piuttosto una semplice giustificazione degli hipster al proprio individualismo anarchico. Autori come Jack Kerouac adotterebbero i modi esteriori di un conformismo orientale per legittimare attraverso lo zen le intemperanze e i vagabondaggi (6). La tesi di Umberto Eco non ci sembra però sufficiente per spiegare il successo dello zen in Occidente. Liquidare in questo modo la questione, affrontandone soltanto un aspetto, non è vantaggioso per lo studioso. Dal punto di vista delle scienze sociali l'interpretazione dei fenomeni deve avvenire senza un preventivo giudizio di merito. Comunque sia il comportamento umano, va prima considerato in relazione ai valori apportati, e in seguito giudicato. Inoltre qui permane una distinzione fra cultura alta e bassa che ha poca efficacia nella società dei consumi di massa. Come afferma Alessandro Baricco, anche Beethoven è un brand (7). Piuttosto ci sono molti aspetti dello zen che sfuggono ancora. Alan Watts mette in evidenza nel suo saggio già citato, come lo zen nipponico sia un movimento di reazione e contestazione all'eccessivo formalismo della società giapponese. Egli fa notare che l'istituzionalizzazione dello zen è stato un processo storico (8) che ha comportato una formalizzazione esteriore. Ma non è l'aspetto esteriore che ci può spiegare il valore dello zen. Gli hipster colgono nella tradizione orientale il rifiuto della vita mondana, e con ciò non si sbagliano.
In Oriente è sempre esistito uno spazio sociale autonomo riservato alla spiritualità. In India gli yogin che si rifacevano agli insegnamenti di Patanjali, sostenevano che il pensiero vincolasse a una concezione erronea della realtà da cui si poteva uscire attraverso esercizi fisici (asana) e psichici (dhyana). In Cina e Giappone i buddhisti riconobbero il carattere illusorio della realtà e suggerirono d'abbandonare l'attaccamento (upadana) alle cose. Buddha aveva accettato nell'ordine religioso (sangha) i membri di qualsiasi casta, minando i fondamenti della gerarchia sociale. Nell'Occidente cristiano, invece, la chiesa riconosceva ancora un forte potere ai ceti elevati. Il regnante riceveva l'incontestabile investitura da Dio (viceversa in Cina, ad esempio, il mandato celeste poteva essergli ritirato dalle divinità). Quando si avanzò la proposta di separare il potere religioso e politico avvenne appunto perché la sovrapposizione era divenuta inaccettabile portando a contrasti laceranti. Ma lo spazio sociale riservato alla religione era stato inevitabilmente occupato dalla politica. Anche in Oriente la politica ha invaso e si è appropriata della religione per fini utilitaristici. Però le religioni politeiste e panteiste sono meno vulnerabili alla strumentalizzazione politica. E lo zen è radicalmente avverso alle autorità, ai dogmi, alle consuetudini che irrigidiscono la natura umana.
Gli hipster ripresero lo zen e le sue forme artistiche perché esprimeva bene questo atteggiamento. Il modo in cui abbiano realizzato questa ripresa sarà pure questione della filologia e dell'accademia, però dal punto di vista sociologico è del tutto indifferente l'aspetto esteriore dell'agire sociale rispetto al risultato. La concezione estetica della vita non si è fermata ai movimenti hipster, ma ha saturato l'intera società contemporanea. Non stiamo trattando più quei fenomeni che appartengono a una subcultura, piuttosto siamo davanti a ciò che è costitutivo della cultura contemporanea. Per constatare ciò è sufficiente accendere un televisore e sintonizzarsi su MTV. Non è più lecito parlare di movimenti di contestazione quando essi rappresentano la maggioranza dei gusti e delle tendenze. Piuttosto si dovrebbe riflettere sul contrasto esistente fra il potere politico e i cittadini che esso dovrebbe rappresentare in quelle che sono considerate democrazie liberali. La religione è un'esigenza esistenziale che non può essere regolamentata dal potere amministrativo con criteri esclusivamente burocratici e formali. Bisogna garantire soprattutto uno spazio sociale per la religione e che sia tenuta in considerazione la sua capacità aggregativa.

Note

1. Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
2. Sulla fine dell'arte convenzionale, cfr. Vattimo, Gianni, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1991, pp. 59-72.
3. Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, Aries/Arcana Editrice, Milano, 1996.
4. Kopp, Sheldon, Se incontri il Buddha per la strada uccidilo, Editrice Astrolabio, Roma, 1975.
5. Lo Zen e l'Occidente, pubblicato nel 1959, venne incluso in Opera aperta, ribadendo in nota l'atteggiamento critico e il dissenso dal trapianto dello zen come forma artistica in Occidente; cfr. Eco, Umberto, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962. Il saggio di Watts era apparso l'anno precedente; cfr. Watts, Alan, Beat Zen, Square Zen and Zen, in "Chicago Review", Summer 1958.
6. L'arte contemporanea è profondamente influenzata dallo zen e dalla sua estetica. Ricordiamo due casi emblematici: il compositore statunitense John Cage (1912-1992) e il pittore francese Yves Klein (1928-1962).
7. Cfr. Baricco, Alessandro, Next. Piccolo libro sulla globalizzazione e sul mondo che verrà, Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 52-54.
8. Dovrebbe essere ormai risaputo come i movimenti si possano trasformare in istituzioni grazie alla lezione del sociologo Alberoni. Cfr. Alberoni, Francesco, Movimento e istituzione. Teoria generale, Il Mulino, Bologna, 1981.

Bibliografia

Alteriani, Fulvio, Zen. Filosofia, arte della vita, pratica quotidiana, Giovanni De Vecchi Editore, Milano, 1996.
Eco, Umberto, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1962.
Hoover, Thomas, La cultura zen, Arnoldo Mondadori, Milano, 1981.
Izutsu, Toshihiko, La filosofia del Buddhismo Zen, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1984.
Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori, Relazione del corso di Filosofia del Linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Martorella, Cristiano, Quando Uzume salvò il mondo con una risata, Relazione del corso di Linguistica, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Genova, 1999.
Puech, Henri-Charles, Storia del Buddhismo, Laterza, Bari, 1984.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Manual of Zen Buddhism, Rider and Company, London, 1974.
Suzuki, Daisetsu Teitaro, Zen and Japanese Culture, Bollingen Series, New York, 1959.
Vattimo, Gianni, Al di là del soggetto, Feltrinelli, Milano, 1981.
Vattimo, Gianni, Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano, 1974.
Vattimo, Gianni, La fine della modernità, Bompiani, Milano, 1985.
Vattimo, Gianni, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano, 1979.
Watts, Alan, Lo Zen, Bompiani, Milano, 1959.
Watts, Alan, La via dello Zen, Feltrinelli, Milano, 1960.
Watts, Alan, Beat Zen & altri saggi, Arcana Editrice, Milano, 1973.
Yamamoto, Fumio, Nihon masu komyunikeishon shi, Tokai daigaku shuppankai, Tokyo, 1981.
Zecchi, Stefano, Sulla fine del moderno, in "Alfabeta", n. 73, 1985.

venerdì 4 dicembre 2009

Nyoze, i dieci fattori

Articolo sui dieci fattori secondo il Sutra del Loto pubblicato dal sito Nipponico.com.

Nyoze. I dieci fattori secondo il Sutra del Loto
di Cristiano Martorella

19 agosto 2006. Il Sutra del Loto, in giapponese Hokkekyo (1), è fra i sutra buddhisti più popolari e di maggiore influenza. Secondo molti studiosi, fu scritto intorno al I secolo d.C. per rispondere alle esigenze del Mahayana (Scuola del Grande Veicolo) che intendeva diffondere un buddhismo più vicino alle persone senza privazioni ascetiche. In questo senso il Sutra del Loto si accosta ad altre scritture simili come il Sutra della Saggezza e il Sutra della Ghirlanda.
Fra gli insegnamenti esposti nel Sutra del Loto, ha una particolare importanza e peculiarità la dottrina dei dieci fattori (ju nyoze). I dieci fattori sono le modalità di comprensione della realtà, ovvero come la mente umana percepisce se stessa e il mondo che la circonda. Il termine “fattore” traduce la parola giapponese nyoze (in sanscrito tathata, in cinese ju-shih) che significa “la cosa così com’è”. Questa dottrina insegna che le cose che conosciamo e percepiamo immediatamente senza ulteriori elaborazioni della mente (ossia senza giudizio, opinione, ecc.) sono riconducibili a questo schema di fattori (nyoze).

1) So. Aspetto ovvero la forma esteriore delle cose.

2) Sho. Natura, o carattere, è la qualità delle cose.

3) Tai. Entità, ovvero l’ente, il corpo che riunisce forma e qualità.

4) Riki. Potere, ovvero la forza delle cose.

5) Sa. Azione, è l’attività che si manifesta.

6) In. Causa interna. La causa del cambiamento interno.

7) En. Causa esterna o relazione. La causa o condizione esterna.

8) Ka. Effetto latente o effetto interno. Questo è l’effetto delle cose che avviene all’interno di esse.

9) Ho. Retribuzione o effetto esterno. Questo è l’effetto che si manifesta visibilmente.

10) Hon makkukyo to. Coerenza dall’inizio alla fine. Ogni cosa ha un senso senza lacune e interruzioni.

La conoscenza dei dieci fattori permette di distinguere chiaramente il funzionamento della mente e percorrere il cammino di liberazione dalle illusioni.
Importanti commentatori del Sutra del Loto sono stati i monaci giapponesi Dogen (1200-1253) e Nichiren (1222-1282). In particolare, Nichiren spiega i dieci fattori all’interno della dottrina di shoho jisso (il vero aspetto di tutti i fenomeni) e della teoria di ichinen sanzen (tremila regni in un istante).
Secondo Nichiren (2) tutti gli esseri viventi, l’ambiente in cui vivono e i fenomeni dell’universo sono manifestazione dell’ordine cosmico che è identificato con Buddha. Quindi in ogni cosa c’è Buddha, e ogni cosa si manifesta attraverso i dieci fattori. Inoltre in un singolo istante ci sarebbero tremila regni o mondi possibili realizzabili dalla combinazione di fattori e condizione spirituale. Questa è la spiegazione di Nichiren che riprende e sviluppa magistralmente gli studi del cinese T’ien-t’ai.
La teoria dei dieci fattori va comunque considerata correttamente all’interno della più ampia dottrina buddhista. I dieci fattori non sono elementi che costituiscono la realtà, ma al contrario sono gli strumenti dell’intelletto, la griglia o lo schema concettuale che filtra i fenomeni e li rende intelligibili per la mente. La vera e unica autentica realtà è Buddha (l’universo intero e la sua interdipendenza). Per quanto riguarda i fattori di causa ed effetto (in giapponese innen), è bene ricordare che secondo Buddha sono anch’essi illusori. La causa è il prodotto di una abitudine mentale (in sanscrito vasana). Questa comprensione della produzione delle cause è simile alla spiegazione fornita dal filosofo scozzese David Hume nel XVIII secolo. Hume usa i termini custom ed habit (abitudini, tendenze, usanze) per indicare una facoltà superiore che influenza la formazione delle idee. Se si accetta questa interpretazione, si capisce perché sia necessaria una illuminazione (in giapponese satori) e una emancipazione (gedatsu) che giunga fino al nirvana (nehan) perché si possa avere la comprensione della realtà dell’universo. Senza distacco e liberazione dalle tendenze e abitudini non è possibile vedere oltre le illusioni prodotte dalla mente. Eppure sono le stesse illusioni, che prese singolarmente ingannano e fuorviano, a realizzare viceversa se considerate contemporaneamente e complessivamente la realtà. La diversità non è costituita dalla mente di chi pensa, ma dal modo come la si usa. Buddha è colui che pensa e agisce come Buddha, perciò chiunque può esserlo. Così afferma il Sutra del Loto senza sbagliarsi. Questa dottrina è anche coerente con le teorie buddhiste precedenti, altrimenti non sarebbe comprensibile e concepibile l’avviamento della ruota della legge, ossia la predicazione e l’insegnamento di Buddha. Nel Mahaparinirvana sutra si afferma che tutto quello che ha forma esiste per effetto della mente (3). Il buddhismo autentico è perciò l’esercizio e la pratica della conoscenza e del controllo della mente. Buddha è colui che è pervenuto all’illuminazione ed ha raggiunto tale capacità. La differenza fra chi è prigioniero delle illusioni e chi è pervenuto all’illuminazione non consiste nell’eliminazione delle apparenze prodotte dallo schema dei dieci fattori, ma nella modalità di operare della mente. La mente di Buddha non si ferma a considerare un singolo aspetto, ma coglie contemporaneamente il pluralismo della realtà.

Note

1. In sanscrito è intitolato Saddharmapundarikasutra, letteralmente Sutra del Loto della Buona Legge. In giapponese è tradotto come Myohorengekyo, dove myo significa buona, meravigliosa, straordinaria, e ho indica la legge o dharma (insegnamento di Buddha). Renge è invece il fiore di loto, infine kyo significa sutra (testo buddhista). Myohorengekyo è abbreviato in giapponese con Hokkekyo, in italiano con Sutra del Loto. La più antica versione sembra redatta nel I secolo d.C., all’incirca tra il 40 e il 100 d.C., in un periodo in cui si sviluppava e prosperava la scuola Mahayana. La dottrina del Sutra del Loto è basata sulla ekayana (veicolo unico) che propaga l’insegnamento circa l’esistenza di Buddha in ogni individuo e l’accessibilità immediata e sicura alla buddhità in questo mondo.
2. Cfr. Nichiren, Gli scritti di Nichiren Daishonin, Vol. 4, Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, Firenze, 2000, pp. 229-236.
3. Cfr. Buddha, Mahaparinirvana sutra, Edizioni I Dioscuri, Genova, 1990, pp. 48-50.

Bibliografia

Hume, David, Ricerca sull’intelletto umano, Laterza, Bari, 1996.
Ikeda, Daisaku, La saggezza del Sutra del Loto, Arnoldo Mondadori, Milano, 2005.
Ikeda, Daisaku, I capitoli Hoben e Juryo, Esperia Edizioni, Milano, 1999.
Martorella, Cristiano, La verità e il luogo, in “Diogene Filosofare Oggi”, n.4, anno II, giugno-agosto 2006.
Nichiren, Gli scritti di Nichiren Daishonin, Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, Firenze, 2000.

Inga, il rapporto causale

Articolo sul concetto di causalità nel buddhismo pubblicato dal sito Nipponico.com.

Inga, la mistica della legge inesistente
Il rapporto causale secondo il buddhismo
di Cristiano Martorella

5 agosto 2007. Una credenza molto equivocata è sostenuta dalla maggioranza dei buddhisti riguardo al karma e il rapporto causa ed effetto (in giapponese inga to kekka). Si pensa, in maniera ingannevole, che ogni buona azione abbia una ricompensa e ogni malefatta riceva una punizione. Così si attribuisce alle disgrazie e sventure un rapporto con le azioni precedenti, non soltanto in questa vita ma anche nelle esistenze anteriori secondo la dottrina della metempsicosi. Questo sistema delle retribuzioni di benefici e punizioni viene chiamato genericamente karma, dal sanscrito karman che significa semplicemente azione. In realtà il Buddha storico, Shakyamuni, non ha mai attribuito un senso così meccanico e deterministico al karma, anzi ha sempre sostenuto il carattere ingannevole e illusorio del rapporto causale.
L'equivoco dei buddhisti ha conseguenze drammatiche e nefaste nella pratica. Infatti la credenza fallace che ogni azione sia ricompensata o punita porta ad una attesa spasmodica per qualcosa che non accadrà. Constatato che in questa vita ciò non avviene, i buddhisti si consolano e si ingannano sperando nell'esistenza successiva. Questo atteggiamento genera frustrazione e ansia, appunto ciò che Buddha voleva superare. Buddha aveva anche avvisato insistentemente i suoi seguaci dal pericolo costituito dalla pratica religiosa seguita in modo non corretto. La dottrina buddhista mal interpretata produce danno e dolore così come un serpente afferrato per la coda si rivolge contro chi lo tiene e lo morde (1).
Nonostante i tanti equivoci, molti maestri buddhisti indicano correttamente la spiegazione che Buddha ha fornito della causalità. Buddha non ammette una causalità in senso stretto. La causa esige un rapporto diretto con l'effetto. Ed è proprio questa dipendenza unilaterale che viene criticata da Buddha stesso. È soltanto sotto condizioni molteplici, praticamente infinite, che qualcosa avviene. Ciò che appare, ogni fenomeno, non si origina da sé né da un altro sé, non si origina neppure a caso. In realtà non è prodotto ma si origina in interdipendenza. Non c'è sostanza che si trasforma da sé (produzione da sé). Non c'è produzione dal nulla di un dio o di un uomo (produzione da altro). Tali idee sono soltanto il prodotto di un pensiero antropocentrico che considera le cause al lavoro alla stregua di un ceramista che preso un pezzo di argilla lo trasforma in un vaso. Lo stesso rapporto stretto di dipendenza unilaterale tra causa ed effetto viene disciolto in una molteplicità di condizioni complesse.
Un altro equivoco fondamentale è costituito dall'affermazione della coincidenza di causa ed effetto. Generalmente i buddhisti interpretano la coincidenza di causa ed effetto come il potere miracoloso di Buddha nell'esaudire le preghiere e i desideri. Invece non è affatto così.
In realtà causa ed effetto sono coincidenti nella consapevolezza (2). Attraverso la consapevolezza la causa viene dissolta nell'effetto perché si comprende e osserva la non-sostanzialità del rapporto causale che è un fantasma della nostra mente (3). Non esiste una causa singola ma cause infinite quindi incommensurabili e non determinabili.

Note

1. L'esempio del serpente è dello stesso Buddha. La dottrina buddhista mal compresa è dannosa e nociva come il morso di un serpente che è afferrato senza attenzione. Afferrare male il serpente significa afferrare male la dottrina di Buddha, cioè non comprenderla affatto nel suo significato autentico. Cfr. Burlingame, Eugene Watson, Parabole buddhiste, Laterza, Bari, 1995, p. 128.
2. Cfr. Meazza, Luciana, Le filosofie buddhiste, Xenia Edizioni, Milano, 1998, p. 8.
3. Circa il principio di non-sostanzialità dei fenomeni si legga la dottrina del vuoto (ku). Cfr. Martorella, Cristiano, La verità e il luogo, in "Diogene Filosofare Oggi", n. 4, anno II, giugno-agosto 2006, p. 15.

Bibliografia

Burlingame, Eugene Watson, Parabole buddhiste, Laterza, Bari, 1995.
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Ikeda, Daisaku, The Living Buddha, Weatherhill, New York, 1976.
Martorella, Cristiano, La verità e il luogo, in "Diogene Filosofare Oggi", n. 4, anno II, giugno-agosto 2006.
Meazza, Luciana, Le filosofie buddhiste, Xenia, Milano, 1998.
Pasqualotto, Giangiorgio, Il buddhismo, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
Puech, Henri Charles, Storia del buddhismo, Arnoldo Mondadori, Milano, 2001.

Bonno, inganno delle passioni

Articolo sull'inganno delle passioni secondo il buddhismo pubblicato dal sito Nipponico.com.

Bonno, l'inganno delle passioni
Scopi e trappole del buddhismo
di Cristiano Martorella

5 agosto 2007. Il buddhismo è l'insegnamento esposto dal saggio della famiglia Shakya, Siddhartha (563-483 a.C.) detto il Buddha (1). La pratica e l'applicazione dell'insegnamento buddhista hanno lo scopo di liberare gli esseri umani dal giogo del dolore e della sofferenza, e quindi sviluppare pienamente le loro vite. Però lo stesso Buddha predisse che col tempo il suo insegnamento sarebbe stato corrotto, frainteso e degenerato (2). Questa profezia trova conferma in un'analisi puntuale delle pratiche del buddhismo nei paesi più lontani dall'originario insegnamento, ossia Cina e Giappone. Quest'ultimo paese conobbe anche un vivace scontro, spesso violento e feroce, fra i riformatori del buddhismo.Tuttavia è stato proprio il conflitto delle passioni a rendere il buddhismo giapponese (3) più attivo e interessante, nonostante il travisamento dell'insegnamento originario. Ciò spiega anche il successo in Europa e negli Stati Uniti delle sette giapponesi in tutte le loro forme (comunità di monaci, associazioni di laici, centri di studio accademici, etc.). Per comprendere adeguatamente il buddhismo giapponese è necessario penetrare criticamente nei princìpi che regolano le pratiche buddhiste.
Il termine giapponese bonno indica le passioni e le illusioni che dominano la nostra vita. La parola bonno traduce il vocabolo sanscrito klesa che significa appunto passione ingannevole, illusione che avvince l'animo umano. Il termine bonno è composto da bon (letto anche come wazurawashii significa complesso, problematico, difficoltoso) e no (nella forma verbale nayamu significa soffrire, tormentarsi, angosciarsi). Da un punto strettamente psicologico è chiaro il senso di questa teoria. Le passioni ed emozioni forti sono capaci di provocare una distorsione cognitiva che altera le percezioni della realtà. Viceversa le emozioni sono necessarie per creare le motivazioni, e dunque non possono essere eliminate completamente. Ciò che propone Buddha è una moderazione ed una consapevolezza che rende manifesto ogni aspetto del reale piuttosto che le false aspettative. La questione della distorsione cognitiva (4) è cruciale sia dal punto di vista psicologico, sia nel contesto della corretta pratica religiosa. Il buddhismo non nega la realtà del mondo, ma propone un migliore rapporto con essa, più autentico e verace. Il buddhismo è nichilismo nel senso che distrugge e annienta le illusioni, svelando la verità dell'essere.
La questione della distorsione cognitiva è ripresa anche in un altro insegnamento buddhista, presente in quasi tutte le sette giapponesi: i tre veleni (sandoku). I tre veleni che inquinano l'animo umano sono il desiderio (musabori), la collera (ikari) e l'ignoranza (oroka). L'affrancamento dai tre veleni avviene tramite le tre porte che conducono alla liberazione: non desiderio, non sé, non forma. Praticamente nell'esercizio di trasformare (hendoku iyaku) i tre veleni. Si trasforma così il desiderio in compassione, la collera in forza vitale, l'ignoranza in saggezza. Purtroppo i tre veleni sono capaci di infiltrarsi dappertutto e assumere aspetti insospettabili. La stessa pratica buddhista è contaminata dai tre veleni, come dimostrano i numerosi tradimenti e scismi, e Buddha spronava sempre gli adepti a non abbassare la guardia nei confronti delle insidie dei falsi maestri e delle dottrine nocive. Chi usa il buddhismo per i suoi meschini scopi personali reca grave danno a sé e agli altri. Lo scopo del buddhismo è la liberazione ed è esattamente il contrario dell'asservimento autoritario praticato in molte sette, scuole e associazioni che ne usano il nome.
Per questo motivo, molte tecniche mistiche sono nocive piuttosto che benefiche. L'adorazione di un oggetto di culto (5), il gohonzon, è una pratica contraria e opposta all'insegnamento di Siddhartha. Chi venera un oggetto di culto non ne è mai libero, ma ne è lo schiavo. Ci si aspetta dall'oggetto di culto miracoli o interventi divini, benefici e protezione. Però quello che si ottiene è l'alimentazione e la diffusione dei tre veleni (sandoku). La dinamica psicologica di questo processo è chiara ed evidente. Si crede ciecamente nei poteri miracolosi di un oggetto di culto venerato come un idolo. Ciò avviene per ignoranza, superstizione, stupidità (oroka). Si esprime il desiderio (musabori) e si prova rabbia e collera (ikari) perché non esaudito. L'oggetto di culto diventa così lo strumento di tortura che produce i tre veleni in questa sequenza: l'ignoranza, il desiderio e la collera. In conclusione si ottiene l'effetto contrario a quanto auspicato. Paradossalmente chi crede di praticare il buddhismo anche sbagliando finisce inevitabilmente per dimostrare la pericolosità delle passioni che ingannano la mente, ossia la correttezza dell'analisi del Buddha storico, Siddhartha.

Note

1. Il titolo Buddha significa "risvegliato" o "illuminato", ossia colui che si è liberato dell'ignoranza e conosce la verità circa l'esistenza. Siddhartha (563-483 a.C.) nacque a Kapilavastu, località attualmente in Nepal, ma all'epoca regno indipendente di tipo repubblicano gentilizio. Secondo la cronologia più attendibile sarebbe nato nel 563 a.C. e morto nel 463 a.C. circa. Tuttavia altre datazioni spostano le coordinate temporali in maniera rilevante. Secondo la cronologia singalese sarebbero 663-543 a.C. circa, le date secondo la tradizione nell'India settentrionale sarebbero 463-383 a.C. circa.
2. In giapponese l'epoca in cui l'insegnamento di Buddha è divenuto incomprensibile è chiamato mappo. Attualmente l'epoca moderna in cui viviamo sarebbe nel periodo del mappo.
3. Le scuole giapponesi più importanti sono Hosso, Kegon, Tendai, Shingon, Rinzai, Soto, Obaku, Ritsu, Nichiren e Jodo.
4. Le analisi più interessanti sulla distorsione cognitiva sono state pubblicate da Jon Elster. Cfr. Elster, Jon, Più tristi ma più saggi? Razionalità ed emozioni, Anabasi, Milano, 1994. Si veda anche il volume Uva acerba. Cfr. Elster, Jon, Uva acerba. Versioni non ortodosse della razionalità, Feltrinelli, Milano, 1989.
5. L'oggetto di culto, in giapponese gohonzon, è presente in molte sette buddhiste. Nella setta della Terra Pura (Jodo) può essere rappresentato da statue di Amida o un'altra cosa che lo ricordasse, mentre per la setta di Nichiren è un mandala costituito da un rotolo con l'iscrizione dei nomi di divinità sovrannaturali e il titolo del Sutra del Loto. Nelle case il gohonzon viene conservato in un altare domestico chiamato butsudan. Al contrario di queste usanze, Bodhidharma proibiva l'uso di oggetti di culto, perciò le sette zen giapponesi ne sono privi.

Bibliografia

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Martorella, Cristiano, Gioco linguistico e satori. Relazione del corso di filosofia del linguaggio, Facoltà di Lettere e Filosofia, Genova, 1999.
Martorella, Cristiano, Affinità fra il Buddhismo Zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", anno XX, n. 61, marzo 2003.
Martorella, Cristiano, La verità e il luogo, in "Diogene Filosofare Oggi", n. 4, anno II, giugno-agosto 2006.
Martorella, Cristiano, Filosofare da cuore a cuore, in "Diogene Filosofare Oggi", n. 4, anno II, giugno-agosto 2006.
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Puech, Henri-Charles, Le religioni dell'Estremo Oriente, Laterza, Roma-Bari, 1988.

mercoledì 2 dicembre 2009

Ishindenshin

Articolo pubblicato dalla rivista "Diogene Filosofare Oggi". Cfr. Cristiano Martorella, Filosofare da cuore a cuore, in "Diogene Filosofare Oggi", n.4, anno 2, giugno-agosto 2006, pp.12-13.


Filosofare da cuore a cuore
di Cristiano Martorella

La parola zen deriva dal cinese ch’an, a sua volta adattamento dal sanscrito dhyana e del pali jhana. Con questo termine si indica semplicemente la meditazione, ma ha assunto anche il significato di un tipo di buddhismo giapponese dal nome della setta omonima. La leggenda narra che il primo patriarca dello zen fu Kashyapa. Durante un’assemblea Buddha rimase misteriosamente silenzioso guardando semplicemente un fiore che teneva in mano. Poi rivolse lo sguardo ai discepoli. Nessuno lo comprese tranne Kashyapa che gli sorrise. Buddha ricambiò il sorriso e questa fu l’illuminazione del suo allievo. La leggenda indica chiaramente le caratteristiche del buddhismo zen che si concentra sul fenomeno dell’esperienza dell’illuminazione. Lo strumento per raggiungere l’illuminazione è la meditazione. La meditazione è, secondo Taisen Deshimaru, la condizione originale del corpo e della mente liberati dai condizionamenti. Quanto ciò sia facile da dire e difficile da applicare è ben noto a chi pratica lo zen che è sicuramente una scuola buddhista dalla disciplina severa e austera, e tuttavia affascinante per gli occidentali. Motivo di tanto interesse è dovuto anche all’influenza che lo zen ha avuto sulle arti giapponesi. Dal teatro (no) alla calligrafia (shodo), dall’arte della disposizione dei fiori (ikebana) alla cerimonia del tè (chanoyu), dal tiro con l’arco (kyudo) alla scherma (kendo), ogni arte giapponese sembra permeata dai princìpi dello zen. La ragione è da ritrovare nella flessibilità amorfa della pratica zen. In effetti non è zen ciò che si fa, ma come si fa. A questo punto è necessario un passo indietro per approfondire alcuni aspetti del buddhismo e comprendere cosa si intenda per pratica zen.
Il dilemma della condizione umana è nell’essere afflitti da tormenti e tribolazioni generati da una mente incapace di restare tranquilla. La soluzione non è nell’attitudine del pensiero, nelle idee, che più spesso sono la causa del dilemma, e nemmeno in una condizione fisica che ignora il malessere mentale. C’è bisogno di una pratica che sappia risolvere il conflitto fra la mente e la realtà, il pensiero e il corpo, l’individuo e l’ambiente, la vita e la morte, insomma la soluzione di ogni dualismo. Infine ecco l’illuminazione immediata secondo l’insegnamento dello zen. L’illuminazione è l’esperienza della percezione dell’identità delle contraddizioni. Il dualismo è soltanto un’idea della mente, la realtà è l’unità dei fenomeni dell’universo. Chi riconosce il carattere illusorio del conflitto si emancipa dai ceppi che impediscono alla mente di vedere il carattere autentico del quotidiano. La mente dell’illuminazione (bodaishin) è la mente che vive in accordo con la realtà del sé e delle cose, libera da attaccamenti e condizionamenti. Il metodo per sviluppare la mente dell’illuminazione è la via di Buddha (butsudo) senza spirito di profitto (mushotoku). Concretamente ciò si può realizzare in diversi modi, e infatti sono diverse le tecniche usate dalle scuole zen. La setta Rinzai adotta lo zen della meditazione sulle parole (kanna zen) attraverso i koan, paradossi logici, mentre la setta Soto applica lo zen dell’illuminazione silenziosa (mokusho zen) tramite lo zazen, il restare seduti. Lo zazen è una pratica enigmatica nella sua semplicità e banalità, la quale consiste nello stare seduti in quiete senza tensione e senza torpore. Questa semplice condizione, se guidata dalla consapevolezza del corretto insegnamento buddhista, porta all’unità inscindibile di corpo e mente (shinjin ichinyo) e alla liberazione della mente che non si attacca e fissa ai pensieri, ma accetta il cambiamento del reale. Lo zen è dunque la realizzazione della mente originale, mentre il resto è vaneggiamento mondano e illusorio.
Caratteristica dello zen è l’importanza attribuita al metodo dell’insegnamento detto “da cuore a cuore” (ishindenshin) che è simboleggiato dall’illuminazione di Kashyapa. Il vero insegnamento di Buddha non è una conoscenza concettuale trasmissibile tramite le parole, piuttosto è l’intuizione del reale aspetto di tutti i fenomeni e la visione (kensho) dell’autentico sé. Questa intuizione non può avvenire e nemmeno essere trasmessa attraverso i pensieri, bensì può essere indotta soltanto con l’apertura della mente alla ricezione e al raggiungimento dell’illuminazione immediata. D’altronde la stessa definizione di illuminazione immediata rimanda etimologicamente a qualcosa che non è mediato. Da un punto di vista filosofico occidentale ciò rappresenterebbe un ostacolo rilevante. Trasmettere un insegnamento senza l’ausilio del pensiero è inconcepibile. Tuttavia per il buddhismo zen ogni pensiero è illusorio perché è di parte, relativo, particolare, finito, insomma non conosce l’assoluto. Meglio allora liberarsi di questo pensiero restando seduti in silenzio. Drastico ed efficace. Così è lo zen, austero e severo, irremovibile dalla necessità di estirpare l’errore dalla mente umana. Così come Bodhidharma che rimase seduto in meditazione per nove anni rivolto al muro.
Il carattere non speculativo dello zen spiega la sua penetrazione nelle arti giapponesi. Lo zen è pratica continua e applicazione costante in ogni aspetto della vita. L’arte ha inteso sommamente questo interesse per la vita svincolata da condizionamenti e costrizioni, e perciò l’ha esaltato in massimo grado. Non è nemmeno trascurabile il fatto storico ossia che i maestri dello zen più importanti siano stati giapponesi come Dogen, Keizan, Ikkyu, Hakuin, Bankei e Deshimaru. Per questi motivi si può affermare che il tratto caratteristico della cultura giapponese è tipicamente buddhista e zen, a differenza della Cina profondamente e orgogliosamente confuciana. Il Giappone è perciò il paese attualmente più vicino all’insegnamento dello zen.
In conclusione, a che serve allora lo zen? A niente. Lo scopo dello zen è liberare la vita da scopi artificiosi e innaturali rivelandone il suo autentico potenziale. Lo zen si presenta sempre come contraddittorio e inafferrabile perché non accetta appunto qualsiasi genere di manipolazione e strumentalizzazione. Ogni volta che si tenta di fissare la mente a qualcosa, immediatamente lo zen lo nega. Se ci si rivolge alla negazione, nega anche quest’ultima. La verità non è in qualcosa, la verità è in tutto. La mente offuscata è capace soltanto di discriminare e distinguere, viceversa la mente illuminata è capace di comprendere e compenetrare. Per questo motivo la mente dello zen è più vicina alla mente di un bambino che gioca, ed è lontanissima dalla mente di chi è convinto delle opinioni e tronfio delle certezze. Dogen affermava che tenendo la mano aperta in un deserto passerà tutta la sabbia trasportata dal vento, mentre tenendo la mano chiusa si stringeranno pochi granelli. Lo zen insegna a concepire le opportunità e rifiutare il possesso di ciò che può divenire un ostacolo per la vita. Un esempio della mente ingannevole è fornito dall’immagine della scimmia che si agita e tormenta perché non riesce ad afferrare il riflesso della luna nell’acqua. Quante volte la mente umana si comporta così, tormentandosi e agitandosi nel tentativo di possedere qualcosa? Una domanda senza soluzione è sufficiente a gettare nell’angoscia e nelle tribolazioni. Pur essendo evidente la dannosità di un simile atteggiamento, non si riesce ad evitarlo. La mente non è addestrata a rifiutare la tentazione delle cattive abitudini. La pratica dello zen consiste nello sforzo supremo di imparare a guidare la mente, e non farsi trascinare e controllare dalla mente ingannata e ingannevole. Si comincia osservando la mente e imparando a conoscerla. Quando ciò è avvenuto, la mente non è più un avversario che si scontra con la realtà, ma un compagno di viaggio. Sconcertante, eppure lo zen è semplicemente questo.


Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Storia del buddhismo Ch’an, Mondadori, Milano, 1992.
Deshimaru, Taisen, Autobiografia di un monaco zen, Mondadori, Milano, 1995.
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Hisamatsu, Shin'ichi, La pienezza del nulla, Il Melangolo, Genova, 1993.
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Lamparelli, Carlo, Il libro delle 399 meditazioni zen, Mondadori, Milano, 1996.
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Martorella, Cristiano, Affinità fra il buddhismo zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003.
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Watts, Alan, Beat zen e altri saggi, Arcana, Milano, 1978.

Wittgenstein e il buddhismo

Articolo sulla filosofia di Wittgenstein e il buddhismo pubblicato dalla rivista "Quaderni Asiatici".

Cfr. Cristiano Martorella, Affinità fra il Buddhismo Zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003, pp.91-99.


Affinità fra il Buddhismo Zen e la filosofia di Wittgenstein
di Cristiano Martorella

Wittgenstein e il pensiero orientale

Chi si occupa della filosofia orientale, e in particolare del Buddhismo Zen, non può non sorprendersi nel trovare in un pensatore occidentale, così estraneo al contesto della cultura asiatica, una quantità notevole di affinità. Ciò è maggiormente interessante se si aggiunge che Wittgenstein ignorava completamente le opere e gli autori orientali. Egli aveva studiato al Politecnico di Berlino e alla Facoltà d’ingegneria di Manchester, infine si era dedicato allo studio della logica a Cambridge. Come si vede i suoi interessi erano lontani da qualsiasi testo di filosofia orientale. Eppure Wittgenstein si ritrovò ad affrontare gli stessi problemi che avevano impegnato i saggi d’India, Cina e Giappone. Per quale motivo? Semplicemente perché il campo di indagine era il medesimo: il linguaggio. Buddha aveva indicato agli orientali l’origine della sofferenza. Un cattivo o eccessivo utilizzo del pensiero procura all'uomo tensione, angoscia, paura e sofferenza. Wittgenstein era un uomo profondamente tormentato dagli stessi problemi. Egli era fortemente insoddisfatto dell’incapacità della filosofia occidentale nel rispondere alle sue domande. Nel Tractatus Logico-philosophicus egli affermava: “(...) il valore di quest’opera consiste allora, in secondo luogo, nel mostrare a quanto poco valga l’avere risolto questi problemi” (1).

Filosofia del linguaggio

Wittgenstein si accorse che i problemi della filosofia sono falsi problemi, dunque la sua indagine si sposta sull’analisi di questi pseudo-problemi. Lo scopo della filosofia di Wittgenstein è esclusivamente mostrare ed eliminare gli pseudo-problemi.
Wittgenstein non fu il primo logico a individuare nell’ambiguità e fallacia del linguaggio l’origine dei problemi speculativi e dunque degli errori dell'intera filosofia. In India, con una abilità altrettanto pari, Nagarjuna riuscì a mostrare la vacuità di ogni concetto e di ogni parola. Le somiglianze fra l'insegnamento di Nagarjuna e Wittgenstein si spingono oltre. Secondo Nagarjuna, così come insegna il Buddhismo, ogni cosa è in relazione con le altre, e nessuna ha senso senza le altre. Wittgeinstein parla del principio di contestualità, ed afferma un concetto molto simile. Il significato di una parola o di un concetto dipende dal suo contesto. Nagarjuna sosteneva la prammaticità del linguaggio e Wittgeinstein ribadisce la strumentalità della parola affermando che il senso è l'uso.

Filosofia come terapia

Secondo Wittgenstein lo scopo della filosofia non è erigere un edificio di concetti, il sistema filosofico, ma praticare un continuo e radicale controllo sul linguaggio. La filosofia deve fornire una “grammatica” perspicua del linguaggio (2). Essa non è una dottrina ma una attività.
La forma più nobile del Buddhismo, scevra di superstizioni e credenze metafisiche, ha il medesimo atteggiamento. Il Buddhismo, in particolare lo Zen, necessita di una pratica costante, non è una religione che richiede soltanto l’atto di fede (3). Credere e pregare è del tutto insufficiente. Piuttosto è la pratica con un impegno che implica la totale partecipazione dell’individuo a caratterizzare tale filosofia. Attraverso la meditazione zazen oppure con quesiti koan, il Buddhismo persegue questa strategia che intende liberare l'individuo dagli errori che controllano la sua mente.

Koan di Wittgenstein

Inconsapevole di tale tradizione, anche Wittgeinstein però ne applicò il metodo. Le sue lezioni erano molto simili a sedute in cui i discepoli vengono interrogati attraverso l’uso di un koan. Che Wittgenstein praticasse tale tecnica ci è testimoniato dalle sue stesse opere che restano enigmatiche se non si interpreta correttamente il modo d'operare dell'autore. Ma vediamo da vicino questi esempi di koan di Wittgenstein.

“Potrebbe una macchina pensare?” (Ricerche filosofiche, Par.359)
“La sedia pensa tra sé e sé: dove? In una delle sue parti? O fuori dal corpo?” (Ricerche filosofiche, Par.360)
“Ho intenzione di partire domani. Quando hai l'intenzione? Continuamente o a intermittenza?” (Zettel, Par.46)
“Considera il comando: Ridi sinceramente a questa battuta di spirito!” (Zettel, Par.51)
“Che cosa vuol dire: la verità di una proposizione è certa?” (Della certezza, Par.193)
“Dunque, se dubito, o non sono sicuro, che questa sia la mia mano, perché allora non devo anche dubitare del significato di queste parole?” (Della certezza, Par.456)

Nessuno di questi quesiti può avere una risposta precisa. Al contrario di ciò che accade per le domande della consueta tradizione filosofica occidentale. Come i koan, la risposta è al di fuori dei concetti inquadrati dalla domanda. Wittgenstein ci mostra come l'imbarazzo o il paradosso dei suoi quesiti nascano dalla mancanza di chiarezza del linguaggio e gli inganni provengano da ciò. Per comprendere le sue domande dobbiamo distruggere l'apparato di preconcetti che controllano la nostra mente.

La prospettiva dei filosofi giapponesi

Affermare l’esistenza di una affinità fra lo Zen e la filosofia di Wittgenstein sarebbe una mera ipotesi senza possibilità di verifica se non tenessimo conto degli attuali studi filosofici in Giappone. In effetti una conoscenza approfondita della filosofia contemporanea giapponese, ci rivela che Wittgenstein è fra gli autori occidentali guardati con maggiore interesse. Alcuni studiosi giapponesi arrivano ad affermare che ci sarebbe una consonanza molto forte fra il suo metodo filosofico e la pratica dello Zen. La posizione più netta in tal senso è assunta dal sociologo Hashizume Daisaburo (4). Nel saggio Bukkyo no gensetsu senryaku (La strategia verbale del Buddhismo), egli arriva ad affermare, secondo una sua interpretazione, che Wittgenstein avrebbe addirittura subito l’ostracismo della cultura occidentale permeata dallo spirito giudaico-cristiano. Secondo Hashizume, la filosofia del linguaggio di Wittgenstein sarebbe innanzitutto una critica alla logica vero-funzionale, e in secondo luogo, una alternativa al sistema concettuale occidentale fondato su una dialettica discorsiva e determinista, ma astratta. Non è del tutto infondato considerare come Wittgenstein abbia presto raggiunto, attraverso l’introduzione delle tavole di verità, i massimi sviluppi della logica vero-funzionale. E notare, soprattutto, quanto ne sia rimasto insoddisfatto, al punto di cambiare completamente l’approccio ai problemi filosofici e linguistici.
Hashizume passa poi ad analizzare le strategie del Buddhismo per il raggiungimento del satori. Egli paragona il gioco linguistico (Sprachspiel) di Wittgenstein alle tecniche del Buddhismo per raggiungere lo stato di illuminazione. Il satori presenta gli stessi problemi del sistema filosofico basato sul gioco linguistico. Ad esempio, il paradosso della percezione del dolore (5). Wittgenstein aveva visto in frasi come “io provo dolore” ed “egli prova dolore”, una diversità dovuta a una ricaduta fenomenologica. Provare dolore è un’esperienza singolare e la sua espressione verbale (“Io provo dolore”) è differente dall’espressione verbale del dolore altrui che non conosciamo (“Egli prova dolore”). Resta quindi un elemento indiscernibile che la grammatica non rivela pienamente. Almeno la grammatica delle lingue occidentali, sappiamo che in giapponese le cose sono ben differenti, distinguendo le due frasi anche dal punto di vista grammaticale.
Hashizume individua nello stato di satori una analogia. Noi non conosciamo cosa sia il satori. Per sapere che cos’è dobbiamo raggiungerlo. Ma nel momento in cui l’abbiamo raggiunto, come facciamo a sapere che è davvero il satori? Questo problema nasce da una trappola linguistica. Fondando la conoscenza esclusivamente su una base linguistica, perdiamo la maggior parte delle facoltà che ci permettono di agire sulla realtà.
Per risolvere questa difficoltà, riconoscendo l’imprescindibile concretezza del linguaggio immerso nella realtà, Wittgenstein introduce il concetto di “seguire una regola” (6). Hashizume riconosce nel “seguire una regola” una prassi simile alla tecnica del Buddhismo. Gli orientalisti hanno ben presente la nozione di do, seguire una via, e come venga realizzato. Il maestro indica, non spiega cosa fare. Egli mostra una procedura, l’allievo la ripete. L’elemento concettuale, la spiegazione e la teoria, è del tutto assente.
Importante, in tal senso, è anche il saggio Wittgenstein ni okeru chinmoku (Il silenzio in Wittgenstein) del filosofo Nakamura Hajime (7). Nakamura traccia le linee di una filosofia non discorsiva ma orientata alla prassi. Ciò corrisponde agli insegnamenti dello Zen, ma anche a ciò che Wittgenstein ha realizzato con la sua attività filosofica. I giapponesi usano l’espressione mushin per descrivere un vuoto di emozioni e pensieri che sarebbe alla base della meditazione e della successiva illuminazione. Nakamura individua in Wittgenstein un vuoto con il silenzio, l’interruzione dell’uso della logica vero-funzionale e della dialettica discorsiva.
Tornando ad Hashizume, vediamo che il sociologo giapponese arriva a spiegare certi aspetti del Buddhismo tramite la filosofia di Wittgenstein. Secondo Hashizume, si può trovare il principio di “seguire una regola” nella condizione della comunità buddhista (sangha) che include i monaci (bhikku), i novizi (samanera) e i laici (upasaka). In questo caso, nessuno conosce la “regola”. Essa dovrebbe identificarsi con la figura del Buddha. Ma chi realmente conosce Buddha? Quindi tutti cercano di seguire il suo modello, per l’appunto “seguendo la regola”. Per far ciò è sufficiente ricordare le parole di Wittgenstein che chiariva tali aspetti: “Non sono sufficienti le regole, ma abbiamo bisogno anche di esempi. Le nostre regole lasciano aperte certe scappatoie, e la prassi deve parlare per se stessa” (8). Per il Buddhismo, l’esempio supremo è il Buddha.
Quindi il pericolo che mostrava Wittgenstein era nel confondere “il seguire una regola” con “l’interpretare una regola”. Una minaccia che colpiva alle radici ogni tipo di filosofia del linguaggio che si scontrava con un uso concettuale e astratto della parola. Il tipo di filosofia che Wittgenstein avversava con la sua nozione di “significato come uso”. Una concezione del linguaggio, come ricorda Hashizume, che fu ripresa da John Austin (9), e permise di far tornare concreto il linguaggio.

Conclusioni

Si potrebbe dire che Wittgenstein ha portato alla luce una diversa concezione della filosofia, molto più vicina alla tradizione orientale. Secondo questo modo di vedere, il pensiero non sarebbe un’immagine mentale del mondo, qualcosa di speculare, altrimenti sarebbe anche abbastanza veritiero nei confronti della realtà. Invece la filosofia orientale ci dimostra il contrario. Piuttosto il pensiero è qualcosa prodotto dalla nostra mente che è in relazione con il mondo. L’errore umano è confondere il pensiero con il mondo. L’errore della filosofia occidentale è il tentativo di spiegare il mondo con il pensiero. Il pensiero può spiegare soltanto il pensiero, e la vita è altra cosa.


Note

1. Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Tractatus Logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1989 ("Nuova Universale Einaudi"/196), p. 5.
2. "Metodo della filosofia: la rappresentazione perspicua dei fatti grammaticali". Cfr. Wittgenstein, Ludwig, Filosofia, Donzelli, Roma, 1996, p. 27.
3. "E solo come azione di tal genere l'esistenza buddhista diviene la vita completamente libera (...)". Cfr. Hisamatsu, Shin'ichi, Una religione senza dio, Il melangolo, Genova, 1996, p. 69.
4. Hashizume, Daisaburo, Bukkyo no gensetsu senryaku, in "Gendaishiso", numero speciale Voll. 13-14, Seidosha, Tokyo 1985.
5. Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995, pp.119-138.
6. Ibidem, pp.108-116.
7. Nakamura, Hajime, Wittgenstein ni okeru chinmoku, in "Gendaishiso", numero speciale Voll. 13-14, Seidosha, Tokyo, 1985, pp. 210-217.
8. Wittgenstein, Ludwig, Della certezza, Einaudi, Torino, 1978, p. 26.
9. Austin, John, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova, 1987.


Bibliografia

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Articolo di Cristiano Martorella pubblicato dalla rivista "Quaderni Asiatici".
Cfr. Cristiano Martorella, Affinità fra il Buddhismo Zen e la filosofia di Wittgenstein, in "Quaderni Asiatici", n.61, marzo 2003, pp.91-99.