sabato 29 agosto 2009

La deregulation

Articolo sulla deregulation pubblicato dal sito Nipponico.com alla voce Kisei kanwa.

Kisei kanwa, la deregulation
Liberismo e libero mercato nell’economia giapponese
di Cristiano Martorella

20 dicembre 2002. Deregulation si dice in giapponese kisei kanwa. Un altro modo per dire deregulation è kisei teppai. C’è una leggera differenza fra le due espressioni. Kisei significa regolamentazione. Kanwa è un’attenuazione, mentre teppai è un’abolizione. Dunque i giapponesi preferiscono tradurre deregulation con kisei kanwa che ha il senso di una diminuzione delle regole, così come nel significato originale del termine deregulation (deregolamentazione).
Prima di trattare l’argomento in questione è necessaria una premessa. La società e l’economia giapponese hanno una propria specificità che si è realizzata attraverso il particolare sviluppo storico e culturale del paese. Tuttavia questa specificità non impedisce di inquadrare il Giappone in un contesto internazionale secondo le tematiche universali della politica e della sociologia. D’altronde il contrasto fra particolarità e universalità è un problema filosofico ancora dibattuto. Eppure nessuno studioso serio metterebbe in dubbio l’efficacia del metodo comparativo. La comparazione è uno strumento storiografico che serve a cogliere corrispondenze e differenze specifiche (1). Fu lo storico Noro Eitaro (1900-1934), autore di Nihon shihonshugi hattatsushi (Storia dello sviluppo del capitalismo giapponese) che dimostrò l’utilità del taglio comparativo capace di trattare i fenomeni giapponesi facendo uso di un linguaggio universale. E non possiamo dimenticare che il più autorevole sociologo, Max Weber (1864-1920), fu un tenace sostenitore nonché teorico e utilizzatore del metodo comparativo. Secondo Weber la spiegazione causale dei fenomeni culturali concerne la relazione individuale fra fenomeni storici e non la sussunzione di questi dentro un sistema di leggi generali, come avviene invece per le scienze naturali. Così si salva il carattere oggettivo e scientifico dell’indagine senza precludere la possibilità di stabilire relazione esplicative tra i fenomeni storici. Dunque non c’è motivo di dubitare della validità del metodo storico comparativo.
Il liberismo è la teoria economica che sostiene il vantaggio personale come unico e autentico stimolo per l’uomo ad operare in economia. Pertanto il sistema economico più consono sarebbe la libertà d’impresa o libera iniziativa. A livello macroeconomico il liberismo si esprime eliminando il protezionismo, le barriere doganali, i vincoli amministrativi, gli ostacoli tariffari, e favorendo viceversa il libero mercato. Inoltre sostiene la lotta contro i monopoli in favore della libera concorrenza.
Al liberismo possono essere associati i nomi di importanti economisti: Adam Smith, David Ricardo, William Jevons, Carl Menger, Vilfredo Pareto, Friedrich August Hayek, Milton Friedman e Maurice Allais.
Negli anni ’80 del XX secolo la dottrina liberista ebbe due eccezionali interpreti nel presidente statunitense Ronald Reagan e nel premier britannico Margaret Thatcher. Essi operarono su vasta scala e in modo intensivo proclamando la fiducia nel libero mercato. Margaret Thatcher smantellò lo stato assistenzialista (welfare state) che era causa di un forte indebitamento pubblico. La politica economica di Reagan chiamata "reaganomics" era fondata sulla diminuzione della pressione fiscale sulle imprese per favorire gli investimenti dei privati.
La deregulation (deregolamentazione) è una politica mirante alla trasformazione delle regole alle quali debbono sottostare le imprese in modo da renderle più libere di agire e rinforzare così la loro concorrenzialità. La deregulation fornisce anche la possibilità alle imprese private di entrare in settori precedentemente controllati dallo stato (per esempio i trasporti, le telecomunicazioni, i servizi pubblici).
Il premier Koizumi Jun’ichiro, eletto nel 2001, fu il primo politico giapponese a includere nel suo programma riforme liberiste che includevano una deregulation del mercato del lavoro. Ciò sollevò le preoccupazioni di un ampio strato della popolazione ormai abituata al posto fisso. Gli economisti giapponesi si pronunciarono senza riserve sulla questione della deregulation. Secondo Ohmae Kenichi (trascritto anche Omae Ken'ichi) il Giappone ha un debito pubblico insostenibile. Per superare questa impasse sarebbe necessario un batan (colpo). Bisognerebbe eliminare le banche e gli istituti finanziari in condizioni disastrate e accettare un elevato tasso di disoccupazione.

"Inoltre il governo giapponese dovrebbe ammettere la necessità di entrare in un lungo tunnel. Deregolamentando l’economia e lasciandosi catapultare nel tunnel, il Giappone potrebbe dare impulso alla produzione di nuova ricchezza. […] Perché il piano funzioni bisogna che il governo accetti l’idea di un aumento della disoccupazione fino a un tasso del 7-8% (forse anche con punte di oltre il 10%), che crea mobilità nel mercato del lavoro. […] In tutta onestà, la nostra famosa rete di sicurezza per i dipendenti garantisce troppa sicurezza, al punto che nessuno si muove." (2)

Questa posizione a favore della deregulation ha trovato numerosi oppositori in Giappone, in particolare gli economisti Tachibanaki Toshiaki e Ito Makoto che hanno indicato nella svolta liberista giapponese la causa delle crescenti disuguaglianze economiche e del disagio sociale.

"In ogni modo, attraverso questo processo di riforma economica e di ristrutturazione politica che ha l’obiettivo di creare un mercato sempre più competitivo all’interno di un sistema neoliberista, la società giapponese sta rafforzando la sua natura capitalistica di paese dipendente dalla grande impresa: una nazione che, per realizzare questi obiettivi, tende a opprimere le masse di lavoratori, combinando un mercato del lavoro sempre più competitivo a un sindacato sempre più debole. E se è vero che nei periodi di grande crescita il Giappone ha mostrato una tendenza verso un sistema di eguaglianza sociale economica, è anche vero che la tendenza si è invertita spostandosi verso un modello sempre più sperequato a vantaggio della popolazione ricca, della grande impresa, delle grandi banche più importanti e delle altre istituzioni finanziarie. In una ricerca statistica del 1998 Tachibanaki rivelava che l’indice di disuguaglianza nella distribuzione del reddito in Giappone era cresciuto rapidamente tra gli anni ’80 e ’90, e aveva superato sorprendentemente quello degli Stati Uniti. Questa trasformazione sociale del Giappone verso una crescita delle disuguaglianze sarà controproducente per la ripresa economica, anche se può essere considerato il risultato paradossale della riuscita ristrutturazione di un’economia capitalistica di mercato competitiva." (3)

Ito Makoto fornisce una interpretazione opposta al punto di vista di Ohmae Kenichi, ma è importante notare come egli riconosca l’esistenza della deregulation in Giappone. Entrambi gli autori descrivono la tendenza dell’economia giapponese al liberismo, ma mentre Ito Makoto la condanna, Ohmae Kenichi l’incoraggia. Un altro economista favorevole alla deregulation e al liberismo è Noguchi Yukio. Egli è un convinto assertore della necessità di riforme economiche eliminando l’impiego a vita, i salari in relazione all’anzianità di servizio e tutte quelle protezioni che impediscono la competizione. Dal punto di vista finanziario Noguchi critica la finanza pubblica centralizzata imperniata sulle imposte indirette e la protezione dei settori a bassa produttività. Insomma, egli propone la ricetta neoliberista di Reagan e Thatcher: chi non è in grado di sostenere la concorrenza deve fallire ed essere espulso dal mercato. Ogni tipo di assistenzialismo è eliminato. Noguchi Yukio è anche favorevole alla globalizzazione che considera un’occasione per competere sul libero mercato internazionale.
Non è facile destreggiarsi fra i diversi sostenitori delle teorie economiche. In questo senso sono utili le considerazioni di Sasaki Tadao che condanna la scellerata politica monetaria degli anni ’90.

"All’origine dell’inasprimento della crisi è il fallimento delle politiche economiche, ma è stata la ricetta monetarista che ha portato al restringimento dei cordoni della spesa pubblica, al rialzo delle tasse sui consumi di due punti percentuali nel 1997 […] Burocrati ed economisti della corrente maggioritaria, nel periodo successivo allo scoppio della bolla nel 1990, ignorarono l’opinione che fossero necessarie riparazioni di grande portata per i bad loans [prestiti inesigibili, ndr] a causa del carattere della crisi, determinata dal crollo dei prezzi delle attività finanziarie, e sostennero che fosse sufficiente proseguire la deregolamentazione mantenendo politiche di stimolo congiunturali operanti sugli aspetti di flusso dell’economia. L’idea che l’avvicinamento a un mercato ideale porti al rafforzamento dell’economia giapponese non è altro che ideologia dogmatica." (4)

Sasaki Tadao individua il nocciolo della questione. La fiducia nel libero mercato sembra un atto di fede piuttosto che la propensione razionale allo scambio utilitario (dottrina del liberismo di Adam Smith). Se la teoria liberista pone come condizione imprescindibile la libera concorrenza, possiamo porre lo stesso liberismo nel mercato delle idee economiche. Il fallimento delle politiche liberiste e della deregulation comporterà inevitabilmente il loro abbandono, altrimenti sarà il loro successo a decretarne la validità.

Note

1. Cfr. Hintze, Otto, Storia, sociologia, istituzioni. Introduzione di Giuseppe Di Costanzo. Morano Editore, Napoli, 1990, p.8.
2. Ohmae, Kenichi, Il continente invisibile, Fazi Editore, Roma, 2001, p.260.
3. Ito, Makoto, La crisi giapponese, in "La rivista del manifesto", n.19 luglio-agosto 2001.
4. Cfr. Collotti Pischel, Enrica (a cura di), Capire il Giappone, Franco Angeli, Milano, 1999, p.345.

Bibliografia

Drucker, Peter, La società post-capitalistica, Sperling & Kupfer, Milano, 1993.
Hammer, Michael e Champy, James, Ripensare l’azienda, Sperling & Kupfer, Milano, 1994.
Jenkins, Clive e Sherman, Barrie, The Collapse of Work, Eyre Methuen, London, 1979.
Ito, Makoto, The World Economic Crisis and Japanese Capitalism, Macmillan, London, 2000.
Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.
Tachibanaki, Toshiaki, Nihon no keizai kakusa, Iwanami shoten, Tokyo, 1998.
Takahashi, Makoto, Toyota breaks new ground with cost-cutting system, in "The Nikkei Weekly", 23 settembre 2002, p.10.
Noguchi, Yukio, Senkyuhyakuyonjunen taisei, Toyo Keizai Shinposha, Tokyo, 1995.
Ohmae, Kenichi [Omae, Ken'ichi], Il continente invisibile. Oltre la fine degli stati-nazione: quattro imperativi strategici nell’era della Rete e della globalizzazione, Fazi Editore, Roma, 2001.
Ohmae, Kenichi [Omae Ken'ichi], Il mondo senza confini: lezione di management nella nuova logica del mercato globale, Il Sole 24 Ore, Milano, 1991.

Kaizen contro kakushin

Articolo sulle implicazioni sociologiche del kaizen pubblicato dal sito Nipponico.com.

Un dualismo controverso: kaizen contro kakushin
di Cristiano Martorella

17 dicembre 2000. La nozione di kaizen (miglioramento), introdotta dai giapponesi nel sistema di produzione, comporta una revisione dei concetti occidentali alla base dell'idea di sviluppo industriale. Con l'adozione della logica del kaizen, si introduce un rapporto con il kakushin (innovazione) che può essere anche conflittuale. Kakushin equivale al concetto espresso in inglese con il termine breakthrough, ed è la realizzazione di un progetto di trasformazione in una prospettiva futura. Esso comporta la rimozione di fattori d'ostacolo e il rinnovamento delle strutture di produzione.
I giapponesi non negano l'importanza dell'innovazione all'interno della fabbrica, ma la avvertono come una minaccia se essa non è interna a un processo di miglioramento continuo (kaizen). Secondo Tanaka Minoru, l'autentica innovazione è il risultato della sommatoria del prodotto di kaizen e kakushin. Per i giapponesi, l'innovazione deve essere integrata al miglioramento, se non addirittura subordinata. Non si possono introdurre cambiamenti se la qualità del processo di produzione non è buona.Innovare significa anche rompere la continuità del processo, obbligare a un salto, e sovente con gravi spese e perdite. Sarà sicuramente vero che le perdite presenti dovute all'innovazione vengono compensate e superate dai profitti che essa fornisce nel futuro. Ma questa logica non può essere sempre adottata, e dipende anche dal tipo di economia che la sostiene. Ammortizzare delle spese è possibile in un sistema che possiede ampie riserve. Non è sempre così. E questo spiega il mancato decollo delle economie dei paesi sottosviluppati che non hanno la possibilità di sostenere un sistema industriale. L'idea dello storico ed economista Rostow, teneva presente appunto questa situazione. Il decollo dello sviluppo industriale (take off) deve avere alle spalle un'accumulazione di capitale e di risorse. L'economia giapponese del dopoguerra non godeva di tale condizione, e ha dovuto ricorrere a un sistema di produzione mirato ai propri mezzi ed esigenze.
Mentre Rostow, criticato aspramente da Gerschenkron, credeva che esistessero delle condizioni pregiudiziali per la crescita economica e un'unica tipologia di sviluppo, il Giappone dimostrava nei fatti che era possibile anche un modello diverso di organizzazione industriale. Ono Taiichi ci ricorda come nel dopoguerra i giapponesi fossero consapevoli delle diverse condizioni in cui si trovassero, e che le loro scelte di economia aziendale non si potevano rifare a un'imitazione pedissequa del modello statunitense per loro improponibile.
Un'altra critica al kakushin (innovazione) è di tipo caratteriale ed emotivo. Gli occidentali hanno la tendenza a cambiare totalmente qualcosa che non funziona, buttando magari via un lavoro che necessitava di ritocchi, oppure che aveva in sé delle caratteristiche positive. Ricordiamo che il Walkman che oggi tutti noi conosciamo e usiamo, non è altro che la versione modificata e migliorata di un magnetofono portatile che era fallito miseramente, ma che fu ripreso da Morita Akio e lanciato sul mercato con successo inaspettato. Alla riluttanza nei confronti del kakushin (innovazione) corrisponde quindi un atteggiamento caratteriale. Ai giapponesi non piacciono le riforme che comportano cambiamenti drastici. E qui passiamo dal livello della produzione industriale a quello più articolato dell'economia finanziaria.
Le pressioni degli occidentali sul sistema giapponese per l'introduzione di riforme strutturali non ha mai portato a buoni risultati. Le lamentele degli analisti si sono fatte sentire con più forza a partire dagli anni '90. Un articolo di Robert Neff intitolato Fixing Japan, apparso su "Business Week", sintetizzava bene le ragioni che spingevano a tali critiche. Tuttavia il Giappone cambia, e spesso radicalmente, ma mai secondo le aspettative degli occidentali. In realtà le lamentele degli analisti occidentali sono giustificate. I giapponesi non applicano riforme, piuttosto si limitano a "miglioramenti". Sarà pure significativo il fatto che nella storia del Giappone non è stata mai messa in discussione l'autorità dell'Imperatore, nemmeno nel periodo dello shogunato che vedeva il potere effettivo nelle mani del Generalissimo, riducendo la figura dell'Imperatore a una formalità. Tuttavia fu proprio un Imperatore del periodo Meiji (1868-1912), Mutsuhito, a spingere il Giappone al rinnovamento e all'adozione di quel sistema industriale che ha posto le basi della piena parità con le potenze occidentali. Tutte queste stranezze non possono essere sempre additate all'arcaismo della struttura sociale giapponese.
Ragionare in termini di miglioramento comporta uno scontro con l'idea stessa di sviluppo industriale. Schumpeter aveva individuato nelle innovazioni tecnologiche il meccanismo che consentiva lo sviluppo economico superando le crisi cicliche che porterebbero alla stasi di qualunque sistema economico. Le innovazioni costituivano una sorta di volano per l'economia introducendo un elemento inaspettato e non presente nelle variabili delle funzioni matematiche: l'intelligenza umana. Ma l'introduzione del sistema giapponese di produzione ha comportato un modo diverso di vedere la realtà. Ed è difficile negare che non sia cambiato profondamente anche lo sviluppo storico ed economico.Probabilmente dovremo aspettare la conclusione di questi processi per capire seriamente il fenomeno. Sono trascorsi pochi decenni dai cambiamenti di cui abbiamo parlato, ed è eccessivo pretendere di descrivere tali processi come se fossero già conclusi.Finora molte previsioni degli economisti non si sono realizzate, e il Giappone resta ancora una incognita indisponente per chi vorrebbe vedere il mondo governato dall'omogeneità dello sviluppo economico.

Bibliografia

Gerschenkron, Alexander, La continuità storica. Teoria e storia economica, Einaudi, Torino, 1976.
Momigliano, Franco, Economia industriale e teoria dell'impresa, Il Mulino, Bologna, 1975.
Morita, Akio e Ishihara, Shintaro, No to ieru Nihon, Kobunsha, Tokyo, 1989.
Neff, Robert, Fixing Japan, in "Business Week", 29 marzo 1993, pp.38-44.
Ono, Taiichi [Ohno Taiichi], Lo spirito Toyota, Einaudi, Torino, 1993.
Rostow, Walt Whitman, Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino, 1962.
Schumpeter, Joseph, Capitalismo, socialismo e democrazia, Edizioni di Comunità, Milano, 1955.
Schumpeter, Joseph, Il processo capitalistico, Boringhieri, Torino, 1977.
Tanaka, Minoru, Il segreto del kaizen, Franco Angeli, Milano, 1998.

La domanda e l'offerta

Articolo sull'economia globale secondo Ohmae Kenichi [Omae Ken'ichi] pubblicato dal sito Nipponico.com. L'articolo punta l'attenzione sulle diverse teorie circa la domanda e l'offerta e i cambiamenti internazionali dei mercati.

Juyokyokyu. Domanda e offerta Il mercato postcapitalista e le nuove regole economiche
di Cristiano Martorella

19 gennaio 2003. Nel linguaggio economico si indica con la domanda e l'offerta il meccanismo che regolerebbe la formazione dei prezzi in un libero mercato. La domanda, in giapponese juyo e in inglese demand, è la quantità di merce che un individuo è disposto a comprare a un determinato prezzo. L'offerta, in giapponese kyokyu e in inglese supply, è la quantità di beni o servizi posta sul mercato per essere venduta a un determinato prezzo. La teoria della domanda e offerta (juyokyokyu) è centrale poiché costituisce il presupposto per la rappresentazione del mercato ideale utilizzato nell'analisi economica. Eppure, come si vedrà più avanti, essa comincia a vacillare sotto i colpi della critica e dei sostenitori dell'economia postcapitalista. In particolare, alcune osservazioni dell'economista giapponese Ohmae Kenichi (trascritto anche Omae Ken'ichi) hanno recentemente ridimensionato questa teoria ormai inadeguata al contesto internazionale e alla globalizzazione.La teoria della domanda e dell'offerta ebbe il suo momento d'oro con il successo della scuola economica dei marginalisti negli anni '70 del XIX secolo. Questo mutamento di indirizzo che si opponeva alla precedente scuola classica, fu portato avanti dal lavoro di William Stanley Jevons (1835-1882), Carl Menger (1840-1921) e Léon Walras (1834-1910). I marginalisti contestavano la teoria del valore lavoro che era stata la base dell'analisi economica. Essi sostenevano che il lavoro speso nella produzione di una merce è cosa passata che non può avere alcuna influenza sul valore della merce. Perciò ignorarono il costo di produzione espresso in ore di lavoro, considerando esclusivamente il valore d'uso. Dunque l'utilità di un bene divenne la determinante specifica del valore stesso, ossia il suo costo. Si aggiungeva a ciò l'interpretazione soggettiva del valore che diede appunto il nome alla teoria soggettiva del valore. Ricapitolando, i marginalisti affermano che i prezzi dei beni si formano in un mercato dove i singoli individui ne richiedono una quantità sulla spinta dell'esigenza soggettiva. Questa impostazione psicologista pone come centrali le preferenze del consumatore e il suo comportamento sul mercato, e fa emergere la domanda e l'offerta come fondamentale criterio di autoregolazione dell'economia. In teoria, il meccanismo dell'equilibrio fra domanda e offerta funziona in questo modo: quando c'è un eccesso di offerta il prezzo diminuisce finché la quantità domandata si adegua a quella offerta, se c'è un eccesso di domanda il prezzo sale finché la quantità domandata si riduce a quella offerta. Il valore soggettivo è considerato in funzione della quantità disponibile del bene e misurato alla soddisfazione resa possibile dall'ultima dose del bene stesso. A questa soddisfazione minima gli economisti marginalisti danno il nome di utilità marginale.Ma la teoria soggettiva del valore conteneva i presupposti per la completa eliminazione di qualsiasi teoria del valore dalla scienza economica. Infatti questa impostazione rende inutile ogni considerazione dei fattori psicologici. Gustav Cassel esprime bene questa posizione.

"La teoria economica è essenzialmente una teoria dei prezzi. Il suo compito principale consiste nella spiegazione dell'intero processo attraverso il quale i prezzi si fissano ai loro effettivi livelli. È perciò naturale che, fin dal suo stesso inizio, la teoria debba essere basata sul concetto di prezzo. Non è necessario, come i vecchi economisti usavano fare, sviluppare dapprima una speciale teoria del valore e rimandare a una fase successiva l'introduzione del concetto di prezzo."(1)

Si comprende come la teoria della domanda e dell'offerta, eliminata la teoria del valore, sia oggi divenuta centrale nella scienza economica assumendo il ruolo precedentemente svolto da altri concetti. Eppure, come stiamo scoprendo, la domanda e l'offerta erano soltanto meccanismi dell'economia che svolgevano un ruolo secondario e subordinato prima della svolta teorica della scuola marginalista. Tornando indietro si rivela che perfino David Ricardo (1772-1823), economista classico, aveva messo in dubbio la fondatezza della teoria della domanda e dell'offerta.

"In definitiva, il costo di produzione - non già, come spesso si è affermato, il rapporto tra offerta e domanda - regola necessariamente il prezzo delle merci. Per un certo tratto di tempo il rapporto che intercede tra offerta e domanda può certo influire sul valore di mercato di una data merce, fin che più o meno abbondante non ne divenga l'offerta a seconda che la domanda sia aumentata o diminuita: effetto questo, per altro, solo di breve durata. L'idea che i prezzi delle merci dipendano esclusivamente dal rapporto che intercede tra offerta e domanda e tra domanda e offerta, divenuta quasi un assioma dell'economia politica, è stata fonte di parecchi errori nell'ambito di tale scienza. [...] Il valore d'ogni merce aumenta sempre in ragione diretta della domanda e in ragione inversa dell'offerta [secondo Jean-Baptiste Say, ndr]. [...] Affermazioni queste, esatte per quanto attiene alle merci monopolizzate ed anche per quel che concerne il prezzo di mercato d'ogni altra merce per un periodo di tempo limitato. Se si raddoppia la domanda di cappelli, ne aumenta immediatamente il prezzo: l'aumento è però puramente temporaneo se non aumenta il costo di produzione dei cappelli, cioè il loro prezzo naturale. Se un'importante scoperta scientifica nell'ambito dell'agricoltura adduce a una diminuzione del 50 per cento del prezzo del pane, non per ciò si determina un ingente aumento di domanda, nessuno desiderandone una quantità maggiore di quel che occorra per soddisfare i propri bisogni; non aumentando la domanda non aumenta neppure l'offerta: una merce viene infatti offerta, non per il semplice fatto che è possibile produrla, ma perché viene richiesta."(2)

Con una semplicità disarmante David Ricardo mostra che la teoria della domanda e dell'offerta è soltanto un'ipotesi che trova scarse conferme nella pratica.L'incertezza della teoria della domanda e dell'offerta viene addirittura scavalcata dall'economista giapponese di orientamento liberista Ohmae Kenichi che propone d'abbandonarla in favore di un'analisi empirica della nuova economia fondata sul lavoro intellettuale, la rete virtuale di Internet, la cibernetica e la globalizzazione. Ohmae afferma che il prezzo non è fissato dalla legge della domanda e dell'offerta.

"Nel nuovo continente [il mondo virtuale in cui agisce l'economia contemporanea, ndr] il valore è quasi completamente indipendente dal costo. Il valore di Microsoft Windows, come quello di una Lexus o di Final Fantasy (un videogioco di successo), dipende dalla sensazione che il software produce nell'utente. Se costa poco, è affidabile e compatibile con altri programmi e computer, il suo valore cresce. Queste caratteristiche non sono tutte collegate al costo dello sviluppo del software. E il prezzo di 98 dollari non è fissato dalla legge della domanda e dell'offerta. A ben vedere, il prezzo di Windows deriva dal suo rango di piattaforma, e dalle sue possibilità di conservare questo status. A 400 dollari, il prezzo sarebbe stato abbastanza elevato da attrarre altri concorrenti sul mercato e minacciare la piattaforma. A 20 dollari, il prezzo sarebbe risultato abbastanza basso da convincere i concorrenti di poter produrre un'alternativa in grado di offrire un margine più elevato, e quindi ancora una volta, di minacciare la piattaforma. Bill Gates ha scelto 98 dollari perché è un prezzo abbastanza basso per scoraggiare i concorrenti nel produrre prodotti alternativi più economici, e abbastanza alto per generare margini e da convincere gli utenti che vale la pena di comprarlo. D'ora in avanti i prezzi di beni e servizi dipenderanno dalla capacità di sfruttare la concorrenza. Chi continua a fissare il prezzo dei propri beni con un metro di giudizio da vecchio mondo, basato sul costo, prenderà decisioni sbagliate."(3)

Ohmae Kenichi reintroduce il concetto di valore e di costo di produzione riconoscendo implicitamente che la teoria del valore lavoro era in linea di massima corretta nel vecchio mondo. Ma aggiunge che essa non possa tenere in considerazione i cambiamenti avvenuti nel sistema economico contemporaneo. Egli sostiene che la formazione del prezzo non possa avvenire secondo le propensioni soggettive degli individui, piuttosto sia fissato dalle organizzazioni economiche più forti (aziende, multinazionali, istituti finanziari, etc.). Si passa dunque da una teoria soggettiva del valore a una teoria globale del valore. Il prezzo viene stabilito dalla concorrenza fra le aziende e dalla loro capacità di gestire fette sempre più ampie di mercato. Questa considerazione sposta l'attenzione da un contesto formale che ritiene liberi gli individui posti nel mercato a un contesto storico che pone in primo piano il potere delle organizzazioni aziendali e le loro ramificazioni nel tessuto sociale.Anche se Ohmae Kenichi è un sostenitore estremo del liberismo economico, le sue analisi forniscono ottimi argomenti per comprendere storicamente lo sviluppo economico. Invece di opporre le differenti teorie, possiamo convenire che la teoria del valore lavoro è adatta alla descrizione di una società industriale, la teoria soggettiva del valore è in parte adeguata a spiegare la società dei consumi di massa, e la teoria globale del valore è indispensabile per comprendere la società dei servizi e dell'informazione. La teoria globale del valore, secondo la quale il valore è indipendente dal costo ed è fissato dalle organizzazioni aziendali, contraddice e rende superflua la teoria della domanda e dell'offerta. Eppure se ci fermassimo qui non avremmo nemmeno sfiorato la questione principale sollevata da queste osservazioni. Un sistema economico dove il lavoro non ha più un valore, il prezzo e il profitto non sono collegati alla produzione, e il mercato non è regolato dalla legge della domanda e offerta, non può dirsi capitalista. Infatti sono le definizioni stesse del capitalismo che inequivocabilmente contraddicono ogni tentativo di riportare questa realtà al vecchio schema industriale basato sul capitale (possesso dei beni e dei mezzi di produzione). La gestione della produzione con la tecnica informatica ha introdotto un elemento virtuale e la smaterializzazione del lavoro. L'elettronica e la cibernetica hanno svuotato di senso il lavoro materiale. Il lavoro materiale era prima misurato in ore, l'attuale lavoro intellettuale viene considerato come una prestazione misurata sull'obiettivo. Viene pagato il servizio offerto o l'informazione, ciò indipendentemente dai costi. Però la tecnica informatica rompe la dicotomia fra lavoratore e mezzi di produzione. Con l'informatica il lavoratore può essere anche il proprietario dei mezzi di produzione (computer e periferiche). La stessa rete informatica non ha proprietari ed è condivisa dagli utilizzatori che ne garantiscono l'esistenza attraverso il loro hardware.L'economia postcapitalista permette alle grandi aziende una maggiore penetrazione e pervasività nel mercato attraverso la globalizzazione, eppure quest'ultima costringe a una estensione della partecipazione che nessuna multinazionale può controllare. Cade l'opposizione fra chi produce e chi consuma, in conclusione, fra offerta e domanda.

Note

1. Citato da Claudio Napoleoni. Cfr. Napoleoni, Claudio, Dizionario di economia politica, Edizioni di Comunità, Milano, 1956, p. 1710. Quest'opera di Napoleoni, a cui collaborarono anche Paolo Sylos Labini, Federico Caffè, Maurice Dobb ed altri, merita un particolare plauso per la chiarezza, la precisione e la documentazione sempre pertinente e approfondita.
2. Ricardo, David, Principi dell'economia politica e delle imposte, UTET, Torino, 1948, pp. 291-292. Si tratta del capitolo 30 intitolato "Dell'influenza della domanda e dell'offerta sui prezzi". Questo duro attacco alla teoria della domanda e dell'offerta viene raramente ricordato nei manuali di economia che la presentano invece come un dato di fatto, mentre si tratta soltanto di una ipotesi spesso in contrasto con i fenomeni dell'economia reale.
3. Ohmae, Kenichi, Il continente invisibile. Oltre la fine degli stati-nazione: quattro imperativi strategici nell'era della Rete e della globalizzazione, Fazi Editore, Roma, 2001, p. 330.

Bibliografia

Campanella, Francesco e Donzelli, Franco e Saltari, Enrico, Dizionario di economia politica. Prezzo, profitto, salario, Boringhieri, Torino, 1986.
Currò, Franco (a cura di), L'economia dalla a alla z, Sperling & Kupfer, Milano, 1992.
Drucker, Peter, La società post-capitalistica, Sperling & Kupfer, Milano, 1993.
Hammer, Michael e Champy, James, Ripensare l'azienda, Sperling & Kupfer, Milano, 1994.
Jenkins, Clive e Sherman, Barrie, The Collapse of Work, Eyre Methuen, London, 1979.
Ito, Makoto, The World Economic Crisis and Japanese Capitalism, Macmillan, London, 2000.
Moreau, Maurice, L'économie du Japon, Presses Universitaires de France, Paris, 1959.
Napoleoni, Claudio (a cura di), Dizionario di economia politica, Edizioni di Comunità, Milano, 1956.
Noguchi, Yukio, Senkyuhyakuyonjunen taisei, Toyo Keizai Shinposha, Tokyo, 1995.
Ohmae, Kenichi, Il continente invisibile. Oltre la fine degli stati-nazione: quattro imperativi strategici nell'era della Rete e della globalizzazione, Fazi Editore, Roma, 2001.
Ohmae, Kenichi, Il mondo senza confini: lezione di management nella nuova logica del mercato globale, Il Sole 24 Ore, Milano, 1991.
Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era post-mercato, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.
Tachibanaki, Toshiaki, Nihon no keizai kakusa, Iwanami shoten, Tokyo, 1998.
Takahashi, Makoto, Toyota breaks new ground with cost-cutting system, in "The Nikkei Weekly", 23 settembre 2002, p. 10.
Teulon, Frédéric, Vocabulaire économique, Presses Universitaires de France, Paris, 1993.

Kojo, la fabbrica del samurai

Articolo sul sistema produttivo giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.

Kojo, la chimerica fabbrica del samurai
di Cristiano Martorella

4 novembre 2001. Fra i diversi tentativi di descrivere l’apparato industriale giapponese e il suo modello economico, va ricordato il suggerimento proposto da alcuni studiosi di accostare la figura del manager nipponico all’antico samurai. Questa fascinazione si è rapidamente diffusa, senza nessun preventivo controllo, tanto da coinvolgere sia studiosi sia giornalisti e opinionisti, arrivando ad essere un’idea molto comune.
L’accostamento della figura del samurai e dell’imprenditore è avvenuto in modo astratto e dilettantesco, tanto da provocare confusioni ed equivoci su due piani diversi e importanti. Il primo piano riguarda lo studio dell’economia, sfalsato da questo modello, il secondo quello della sociologia che rischia di rifiutare quei tratti culturali realmente esistenti a causa del rigetto di questo modello.
Prima di approfondire questo tema, vale la pena segnalare alcune opere che hanno risentito del modello riduzionista del samurai.
Francesco Gatti, profondo conoscitore della storia giapponese, ha scritto un discreto saggio intitolato La fabbrica dei samurai. Non soltanto il titolo suggeriva la possibilità di identificare il samurai e l’industrializzazione, ma gran parte del saggio suggeriva che le gerarchie del Giappone moderno fossero un’eredità dell’epoca feudale. Ciò è soltanto in parte vero. Il rischio di un riduzionismo di questo modello avviene nella mancanza di una comprensione complessiva dei fenomeni di interiorizzazione dei valori e della dinamica sociale. In parole semplici, l’idea che i samurai si fossero riciclati come imprenditori era affascinante, ma non spiegava come ciò fosse accaduto. Appellarsi alla "cultura" non era sufficiente, anzi indicava la necessità di spiegare come fosse stata prodotta la cultura (sia quella della classe dominante, sia quella popolare). Insomma, il samurai non era più una figura storica (con la Pax Tokugawa aveva perso il suo ruolo di combattente fin dal XVII secolo), ma era divenuto il soggetto di un’idealizzazione. Questo non significa che si sia ridotta la sua importanza, anzi si può dire proprio il contrario. L’idealizzazione del samurai fu usata un po’ da tutti in Giappone (classe dirigente, ceti popolari, scrittori, etc.) divenendo un elemento dell’immaginario molto potente. Un personaggio che affollava non soltanto le tradizionali opere del teatro kabuki, ma anche i modernissimi cinema, le serie televisive, perfino anime e manga.
Gli studi sociologici sul Giappone, profondamente viziati da impostazioni ideologiche, hanno risentito di questo potere immaginifico, ciascuno a suo modo. Per Karel van Wolferen, autore di Nelle mani del Giappone, la mentalità del samurai si manifesta nel Giappone moderno mai adeguatamente sviluppato democraticamente e tenacemente ancorato all’ideologia feudale. I pregiudizi di Wolferen partono dallo stereotipo del samurai che definisce l’economia giapponese come economia di guerra e di conquista (da cui l’eloquente titolo del libro).
Opinionisti e giornalisti sentivano avallato questo mito del samurai tecnologico al vertice del potere di una casta di burocrati e industriali. E ciò giustificava qualsiasi rappresentazione dell’uomo giapponese, a volte schiavo-robot, altre volte guerriero spietato della finanza. La stampa di tutto il mondo si è alimentata di questo mito. Emblematico l’articolo di Shere Hite intitolato Siamo ancora samurai.

"Orrendi omuncoli con i vestiti da duro: ecco come appaiono in televisione gli uomini d’affari giapponesi. Per non parlare degli scandali legati a famosi personaggi invischiati in casi di corruzione, manager troppo vicini al governo per operare in modo leale, uomini, uomini e ancora uomini."

Lasciando da parte queste note pittoresche, come si può verificare la correttezza della teoria del samurai-manager? Cerchiamo innanzitutto di esplicitarla. Quel che si crede è l’esistenza di un codice etico del samurai adottato nella società industriale: rigida gerarchia, inflessibile ubbidienza al dovere e spirito di sacrificio.
Questi elementi non sono però sufficienti a descrivere l’economia giapponese. Najita Tetsuo osserva l’impaccio e il carattere maldestro di questa formulazione, arrivando a ridicolizzarla:

" […] tanto che anche gli occidentali sono stati indotti a credere che il bushido sia la base delle pratiche tecnologiche e imprenditoriali giapponesi."

Come si è mostrato in precedenza, il samurai era una figura piuttosto idealizzata già nel Giappone del XVII secolo. Purtroppo la reale natura del samurai è coperta da queste incrostazioni ideologiche. Rappresentato da molti come uomo pronto a morire in ogni momento, il samurai perdeva ogni connotazione umana. E nella società industriale, i cui processi portavano a una forte alienazione, cosa c’era di più aderente al modello tecnologico di un uomo snaturato?
Queste interpretazioni si poggiavano su una falsa rappresentazione del samurai. In particolare era stato frainteso il senso del bushido, il codice morale del guerriero. Yoshimoto Tsunetomo, autore dello Hagakure, non era stato letto con attenzione, e nemmeno Nitobe Inazo. Il samurai non era un rozzo guerriero privo di sensibilità pronto a sacrificare la vita in nome del dovere, e nient’altro. Questa era una semplificazione estrema.
Lo Hagakure aveva costituito una riformulazione del buddismo e del confucianesimo funzionale alla società feudale giapponese. Ma per giungere a tanto bisognava che questa formulazione fosse condivisibile, insomma, che giungesse nell’animo delle persone (usando un termine sociologico, che fosse un valore interiorizzato). Perciò il bushido non è soltanto quel codice fondato sulla gerarchia e il dovere come si crede. L’insegnamento zen era stato applicato come trascendimento dell’individualità (l’io è un’illusione), ma l’eliminazione dell’io non significava "disumanità", piuttosto il riconoscimento dell’uomo come progetto di vita, l’innalzamento degli ideali al di sopra di ogni meschinità mondana. Tutto è illusione tranne la consapevolezza di questa natura illusoria , tutto è effimero tranne l’ideale del Buddha, e il satori può essere conosciuto soltanto provandolo. La dimensione estetica costituiva la base dell’etica del samurai, tanto che sarebbe più sensato parlare di estetica invece di etica. Qui intendiamo per estetica non soltanto una rappresentazione artistica, ma la dimensione della psiche che si fonda sul sentimento (in giapponese il kimochi). Si può quindi definire il samurai come un’opera d’arte vivente (così come la geisha per altri versi).
Detto ciò si può tornare al tema dell’economia. La fabbrica giapponese (kojo) non rispecchia affatto la rappresentazione stereotipata del samurai. Il samurai non è il modello a cui si ispirano i manager, piuttosto sono stati i samurai e i manager ad aver avuto entrambi come punto di riferimento la cultura giapponese. Ma l’applicazione di questi tratti culturali all’economia ha modalità differenti secondo il contesto e l’interazione di altre variabili.
La concezione del processo di miglioramento (kaizen) delle fabbriche giapponesi è sicuramente un frutto di una mentalità giapponese. Nel capitalismo occidentale la finalità della produzione è il profitto, e l’innovazione tecnologica è concepita come abbassamento dei costi (grazie a una razionalizzazione del processo di produzione). Il capitalismo giapponese pone la produzione come obiettivo e considera la qualità una variabile interna al processo di fabbricazione (e non un effetto).
Le differenze concrete fra le strutture e le operazioni delle fabbriche giapponesi (kojo) e delle fabbriche occidentali (factory) sono state ben descritte da Richard Schonberger, Ono Taiichi, Fujimoto Takahiro, Ishikawa Kaoru, Taguchi Gen’ichi, Tanaka Minoru e altri. Differenze riscontrabili nello scorrimento nella linea di montaggio, nelle cabine di saldatura, nell’uso di kanban (cartellini), del just-in-time, etc. Queste differenze materiali spostano il discorso della diversità culturale al livello fisico, così che risulta molto difficile negare ciò che invece, a livello astratto, era facile dubitare. Fra gli anni ’80 e ’90, il modello giapponese di fabbrica (kojo) fu imitato anche in Occidente, con risultati considerevoli. Ma l’adozione della chimerica fabbrica dei samurai non ha significato la trasformazione degli occidentali in feroci guerrieri armati di katana. Così come i giapponesi non sono divenuti occidentali adottando la tecnologia occidentale, nella stessa maniera gli occidentali non sono diventati giapponesi imitando le tecniche produttive giapponesi. Questo dovrebbe far riflettere sui modelli sociologici ed economici e prestare più attenzione al loro uso.

Bibliografia

Gatti, Francesco, La fabbrica dei samurai, Paravia, Torino, 2000.
Hite, Shere, Siamo ancora samurai, in "D la Repubblica delle Donne", 28 settembre 1999.
Najita, Tetsuo, On Culture and Technology in Postmodern Japan, in "The South Atlantic Quarterly", n.87, Summer, 1988.
Nitobe, Inazo, Bushido, Kodansha, Tokyo, 1998.
Schonberger, Richard, Japanese Manufacturing Techniques, The Free Pres, New York, 1982.
Yamamoto, Tsunetomo, Hagakure, Iwanami Shoten, Tokyo, 1998.
Wolferen, Karel, Nelle mani del Giappone, Sperling & Kupfer, Milano, 1990.
Taguchi, Gen’ichi, Off-line Quality Control, Central Japan Qualità Control Association, Nagoya, 1980.

domenica 16 agosto 2009

Il liberalismo giapponese

Articolo sul liberalismo giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.

Jiyushugi. Il liberalismo illuminista giapponese
di Cristiano Martorella
8 aprile 2002. La parola jiyushugi è composta da jiyu (libertà) e shugi (principio), dunque una traduzione letterale di liberalismo. La corrispondenza non è solo nella parola, ma anche nei concetti.
Nonostante ciò l’argomento del liberalismo giapponese è decisamente ignorato dagli occidentali che si compiacciono di una serie di stereotipi orientati a fornire un’immagine autoritaria della società e politica giapponese. Questo desiderio di cristallizzare la vita giapponese in una rappresentazione astrusa si ribella quando si presenta un quadro storico che contraddice qualsiasi dogma preconcetto. Allora si esclude la riflessione e l’analisi dei fatti appellandosi alla specificità culturale. Ma l’uso di questo argomento è mal posto, poiché invece di favorire un confronto lo esclude a priori invocando l’incommensurabilità. Soltanto un uso rigido e strumentale della logica dualistica occidentale può fornire supporto all’idea che qualcosa di diverso debba essere necessariamente sempre opposto e contrario. Viceversa, la logica orientale, come quella del filosofo Nishida Kitaro, partendo dal principio di realtà che presenta le cose come relazioni e non come opposti, afferma l’identità dei contrari (mujunteki doitsu) dissolvendo la contrapposizione. Questa premessa ci permette di comprendere come i giapponesi possano concepire la propria società come fusione (yugo) di istituti e tecniche occidentali con sentimenti e tradizioni autoctone. Al contrario di quanto si pensa, ciò non è considerata contraddittorio e conflittuale, ma come un naturale processo di miglioramento (shinpo).
Il liberalismo è uno degli elementi fondamentali che sono entrati a far parte della cultura giapponese. Un elemento che è decisamente ignorato per favorire quell’immagine stereotipata di cui si è parlato prima.
Nella seconda metà del XVIII secolo gli studiosi giapponesi delle scienze occidentali, detti rangakusha, non si limitarono alle discipline tecniche (medicina, botanica, fisica, astronomia, etc.) ma estesero i loro interessi anche alle istituzioni e alle idee politiche. Il rapporto privilegiato con l’Olanda, paese che si distingueva per la tolleranza e la garanzia delle libertà, facilitò l’acquisizione di tali conoscenze. In seguito ci si rivolse alla Gran Bretagna, assunta come modello principale (ma è anche la patria del liberalismo, il paese di John Locke e David Hume).
Nella prima metà del XIX secolo nuovi studiosi sostennero il rinnovamento del pensiero politico giapponese. Fra questi spiccarono Takano Choei (1804-1850), Watanabe Kazan (1793-1841), Sakuma Shozan (1811-1864) e Oshio Heihachiro (1794-1837), quest’ultimo capeggiò perfino un’insurrezione ad Osaka nel 1837. In questa fase le idee politiche liberali erano limitate a una élite di intellettuali e non avevano vasta diffusione. I contadini (nomin) erano impegnati in rivolte e richieste dell’abbassamento delle tasse, i mercanti (chonin) vedevano accrescere il loro potere economico e culturale ma senza possibilità d’influenza politica, i guerrieri (bushi) tentarono di inserirsi nel nuovo ordine sociale come amministratori. Ma la necessità di un nuovo ordine sociale spingeva alla ricerca di innovative soluzioni che si stavano effettivamente presentando, anche se ancora timidamente.
Yamagata Banto (1748-1821), autore di Yume no shiro, sostenne in modo originale il relativismo culturale e l’ateismo.

"Ogni dottrina predomina in certi luoghi ed è caratteristica di paesi diversi. […] Fondamentalmente non esistono leggi stabili nel mondo." (Yume no shiro, epilogo e 2,23)

Egli riconobbe che sebbene ogni paese fosse in possesso di leggi, non esistevano né leggi naturali né leggi universali, né punizioni divine né premi divini. Si può confrontare questa posizione a quella contemporanea di Voltaire esposta in Micromega e Candido, oppure di Jonathan Swift ne I viaggi di Gulliver, o anche di David Hume nel Trattato sulla natura umana. Questi pensatori, come Yamagata Banto, separavano l’etica dalla religione riportandola nell’arbitrio umano e nella sua sfera di libertà. La libertà della persona era l’unico principio universale che potesse essere sostenuto. Inoltre condannavano severamente la superstizione. Così scriveva Yamagata Banto:

Jigoku nashi
gokuraku mo nashi
ware mo nashi
tada aru mono wa
hito to banbutsu.
Kami hotoke
bakemono mo nashi
yo no naka ni
kimyo fushigi no
koto wa nao nashi.

Né inferno né paradiso né io,
tutto quanto esiste è l’uomo
e la moltitudine delle cose.
Né dei né Buddha né mostri,
tanto meno a questo mondo cose
strane e misteriose.

Ma se il liberalismo era ancora a un livello primordiale e rudimentale nella generazione dei rangakusha, esso divenne un tema centrale e fondamentale dopo la riforma Meiji (Meiji ishin, 1868). Studiosi giapponesi si recarono in Europa e riportarono con sé le idee politiche che animavano il vecchio continente.
Nakae Chomin (1847-1901) apprese il cinese e il francese, fu l’interprete dell’inviato Léon Roche e fece parte della missione Iwakura del 1871 trascorrendo due anni e mezzo in Francia. Divenne editorialista pubblicando sul "Toyo jiyu shinbun" (Libero Oriente), sullo "Shinonome shinbun" (L’Aurora) e sul "Rikken jiyu shinbun" (Libertà costituzionale). Nakae Chomin riteneva che i moderni valori politici e sociali del liberalismo fossero universali e trascendessero le diversità culturali. Egli tradusse il Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau esaltandone il valore. Dichiarò di averlo tradotto perché affermava apertamente che la gente aveva dei diritti, e Rousseau era l’autore più importante nel dibattito sui diritti civili.

"Rousseau era nel vero quando affermava che l’uomo privo di libertà e diritti non è un uomo. […] Un governo dispotico, diceva Montesquieu, è quello che abbatte l’albero per cogliere il frutto. Come è vero! Se si considerano le cose da questo punto di vista, la soppressione dei diritti civili da parte dei governanti è esasperante." (Nakae Chomin, "Toyo jiyu shinbun", n.1, 18 marzo 1881)

Autentico paladino del liberalismo giapponese fu Fukuzawa Yukichi (1834-1901). Anche Fukuzawa si recò all’estero (nel 1860, 1862 e 1867) convincendosi della necessità di aprire il Giappone al sapere e al sistema educativo occidentale. Pubblicò nel 1866 il Seiyo jijo (Lo stato delle cose in Occidente) che ebbe notevole successo, e nel 1872 il Gakumon no susume (Incoraggiamento al sapere). Nel 1873 fondò con Nishi Amane e Mori Arinori la Meirokusha (Società del sesto anno Meiji) e la rivista "Meiroku zasshi". A partire dal 1882 pubblicò un suo quotidiano intitolato "Jiji shinpo" (Notizie dei tempi). Gli articoli delle riviste e giornali curati da Fukuzawa trattavano temi di politica, economia, legge ed educazione, contenevano sferzanti critiche al governo e alle istituzioni, difendevano la libertà di stampa.
I valori sostenuti da Fukuzawa Yukichi erano la libertà individuale, l’uguaglianza tra gli uomini, la parità tra gli stati, la civiltà e l’istruzione. In particolare, riprendendo la lezione di John Locke, egli esaltava il ruolo della libertà individuale nella costituzione dello stato. Nel suo Gakumon no susume, egli esordisce affermando:

"Si dice che il cielo non crei alcun uomo al di sopra di un altro, e nessun uomo al di sotto di un altro."

Il principio della libertà individuale è quindi indispensabile secondo Fukuzawa come fondamento della società e dello stato democratico.

"Colui che non si batte per la propria libertà, non si sentirà mai del tutto coinvolto per quella del suo paese. […] Colui che non è in grado di avere la sua indipendenza nel proprio paese non potrà mai difendere i propri diritti e quelli del suo paese […]"

Parole che inseriscono Fukuzawa Yukichi fra i pensatori liberali più sinceri e autentici del XIX secolo.
Per concludere, una semplice osservazione. Il liberalismo occidentale è definito come un movimento politico e culturale a sostegno della libertà individuale, del riconoscimento dei diritti della persona e dell’uguaglianza di fronte alla legge. Si può affermare, senza alcun dubbio e dopo quanto considerato, che il liberalismo era presente anche in Giappone già nel XIX secolo. Il liberalismo fu una scelta spontanea e volontaria degli intellettuali giapponesi. La penetrazione del liberalismo fu più modesta nei ceti popolari, ma non si può negare che avvenne anche se in tempi lunghi. La tesi della democrazia come dono delle nazioni occidentali al Giappone è dunque insostenibile. Al contrario, la comunanza dell’eredità liberale dovrebbe far rigettare quel desiderio di distinguere le sorti del popolo giapponese dalle nostre. Il liberalismo è autentico quando afferma l’universalità dei diritti umani. Nessuna diversità culturale può costituire una scusante per negare gli interessi comuni dell’umanità.

Bibliografia

AA.VV., Nihon zenshi, Daigaku Shuppankai, Tokyo, 1958.
AA.VV., Nihon no rekishi, Yomiuri Shinbunsha, Tokyo, 1960.
AA.VV., Nihon no rekishi, Chuo Koron Sha, Tokyo, 1967.
Beasley, William Gerald, Storia del Giappone moderno, Einaudi, Torino, 1975.
Beonio Brocchieri, Paolo et alii, Capire il Giappone, Franco Angeli, Milano, 1999.
Beonio Brocchieri, Paolo, Storia del Giappone, Arnoldo Mondadori, Milano, 1996.
Corradini, Piero, Il Giappone e la sua storia, Bulzoni Editore, Roma, 1999.
Kato, Shuichi, Storia della letteratura giapponese, Marsilio, Venezia, 1996.
Kerr, Alex, Il Giappone e la gloria, Feltrinelli, Milano, 1999.
Reischauer, Edwin, Storia del Giappone, Bompiani, Milano, 1998.
Sansom, George Bailey, A History of Japan, Stanford University Press, Stanford, 1963.
Takeshita, Toshiaki, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, Clueb, Bologna, 1996.

Il socialismo giapponese

Articolo sul socialismo giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.

Shakaishugi. Il socialismo utopico giapponese
di Cristiano Martorella

30 maggio 2002. Se si può dire che le tematiche socialiste siano state quasi un tabù in Giappone, a maggior ragione si può affermare che in Occidente si è volutamente ignorata la storia del socialismo giapponese. In effetti si può capovolgere la questione e mettere in luce come e quanto si sia voluto nascondere in Occidente. Spesso si è considerata la politica giapponese come una semplice emanazione di un supposto spirito autoritario che non incontrava opposizione grazie a un’attitudine collaborativa di matrice confuciana. Purtroppo o per fortuna, secondo i casi, questo modello non corrisponde agli eventi storici.
Curiosamente perfino la sinistra italiana ha misconosciuto le lotte e le aspirazioni dei socialisti giapponesi. Così abbiamo potuto leggere sulle pagine de "Il Manifesto" i numerosi articoli di Pio d’Emilia che denunciavano l’arretratezza culturale dei giapponesi descritti come un popolo politicamente disimpegnato. Ma anche questi interventi, seppure meritevoli di occuparsi della questione, erano lontani da una corretta conoscenza della storia politica giapponese. Ed è questo il punto che invece vogliamo considerare.
La parola shakaishugi traduce letteralmente socialismo, essendo composta da shakai (società) e shugi (principio, dottrina, -ismo). Il termine apparve in Giappone intorno al 1880. In quel periodo esisteva già un movimento liberale che si batteva per i diritti civili, l’eguaglianza, la libertà e il suffragio universale. Nel 1882 fu fondato il Toyo shakaito (Partito Socialista dell’Oriente) con un programma antiautoritario ispirato ai populisti russi. Il partito fu immediatamente sciolto, ma nel 1883 fu fondato lo Shakaito (Partito Socialista) che organizzò proteste e manifestazioni di notevole intensità. Agli inizi degli anni Novanta alcuni intellettuali della sinistra liberale si orientarono verso le idee del socialismo moderno. Nel 1893 venne fondata la Minyusha (Società degli amici del popolo) che costituì sia una casa editrice sia un’associazione. Nel 1893 pubblicò Genji no shakaishugi (Il socialismo attuale), e nel 1894 la rivista diretta da Tokutomi Iichiro intitolata "Kokumin no tomo" (L’amico della nazione). Nel 1894 venne pubblicato anche Shinkyu shakaishugi (Socialismo vecchio e nuovo), traduzione di Socialism New and Old (Londra, 1890) di William Graham. Ciò a conferma dell’attenzione che i socialisti giapponesi avevano nei confronti del panorama internazionale. In questo contesto avvennero i contatti fra socialisti americani e giapponesi. Il giornalista Takano Fusataro strinse contatti con i numerosi operai emigrati negli Stati Uniti, e così anche Katayama Sen, laureatosi in America.
Nel 1897 Takano Fusataro pubblicò Shokko shokun ni yokosu (Appello ai compagni lavoratori) in cui denunciava lo sfruttamento e le ingiustizie del capitalismo. Come altri intellettuali giapponesi, era però dubbioso delle possibilità di una lotta rivoluzionaria. Nel 1897 Katayama Sen e Takano Fusataro fondarono un forte sindacato giapponese (Sindacato dei lavoratori metallurgici) sul modello dei sindacati americani. Katayama dirigerà anche un bimestrale intitolato "Rodo sekai" (Mondo del lavoro).
Circa i sindacati, il primo fu quello costituito nel 1883 dai conducenti di risciò contro l’introduzione delle carrozze a cavalli. Nel 1894 apparve quello dei tipografi. Ma erano ancora privi di una forte organizzazione, aspetto che fu invece curato nel 1897. Nel 1898 vi fu lo sciopero dei macchinisti della società ferroviaria Nippon tetsudo, i quali rivendicavano una migliore posizione sociale e stipendi più alti.
La repressione non si fece attendere. Nel 1900 il governo promulgò una legge di polizia sulla sicurezza pubblica (chian keisatsu ho) che proibiva qualsiasi attività operaia e sindacale. La censura proibì la traduzione in giapponese di molti autori come Sombart, Zola, Engels, Marx e Tolstoj. Il divieto rimase fino al 1914. Ovviamente i socialisti trovarono qualsiasi espediente per aggirare i divieti. I sindacati poterono agire come "società di mutuo soccorso" e molte pubblicazioni apparvero con la copertura dell’utilizzo a fini di studio. Infatti la legge prevedeva che si potessero pubblicare scritti con finalità di studio se questi non recavano disturbo all’ordine pubblico. Così apparve nel 1906 la traduzione del Manifesto del Partito Comunista sulle pagine dello "Shakaishugi kenkyu" (Studi socialisti).
Ma l’atmosfera era tutt’altro che tranquilla. Nel settembre 1905 vi furono i moti di Tokyo nati da una manifestazione nel parco di Hibiya per protestare contro le clausole dell’accordo di Portsmouth fra il Giappone e la Russia. Gli scontri furono durissimi, perirono 17 civili sotto i colpi delle spade della polizia e furono distrutti più della metà dei presidi della polizia. Fu proclamata la legge marziale. Il Primo Ministro Katsura Taro fu costretto a dimettersi e fu sostituito dal Principe Saionji. Nel 1906 una serie di scioperi partiti dal cantiere navale di Ishikawajima (febbraio 1906) si estesero all’arsenale civile di Kure, all’arsenale militare di Tokyo (agosto 1906), all’arsenale di Osaka (dicembre 1906), al cantiere navale di Nagasaki (febbraio 1907) e al porto militare di Yokosuka (maggio 1907). A questi scioperi si aggiunsero quelli delle miniere (Ashio, Horonai, Besshi e Ikuno). Il governo reagì con una riorganizzazione industriale e una feroce repressione. Quando Katsura Taro ritornò al potere (luglio 1908) la repressione divenne ancora più brutale. Katsura decise di eliminare definitivamente la sinistra militante.
I socialisti giapponesi avevano però reagito bene ai tentativi di soppressione. Nel 1898 Katayama Sen, Abe Isoo, Kawakami Kiyoshi e altri fondarono lo Shakaishugi kenkyukai (Associazione per lo studio del socialismo) e nel 1900 la Shakaishugi kyokai (Associazione socialista). Il 20 maggio 1901 venne fondato lo Shakai minshuto (Partito Socialdemocratico). Le proposte dei fondatori comprendevano il suffragio universale, il disarmo, la nazionalizzazione delle terre, dei capitali e dei trasporti, e l’istruzione pubblica a carico dello stato. Il partito venne sciolto dopo due giorni per volontà del governo.
I socialisti non si arresero. Nel febbraio 1906, approfittando del governo liberale di Saionji Kinmochi, fondarono il Nihon shakaito (Partito Socialista del Giappone). Il congresso di Tokyo (17 febbraio 1907) del Nihon shakaito vide due mozioni contrapposte. Kotoku Shusui sostenne l’azione diretta, mentre Tazoe Tetsuji appoggiò una tattica parlamentare e legalitaria. L’assemblea congressuale votò a maggioranza una terza mozione di compromesso presentata da Sakai Toshihiko. Ma Katsura Taro attendeva solo un pretesto per soffocare nel sangue il movimento socialista. Avvenne l’episodio delle "bandiere rosse" (22 giugno 1908) causato dalle incomprensioni fra le due fazioni socialiste. La fazione dell’azione diretta, ispirata alla tendenza anarchica, era capeggiata da Kotoku Shusui, Arahata Kanson e Osugi Sakae. L’altra fazione, la corrente parlamentare e moderata, era sostenuta da Tazoe Tetsuji, Ishikawa Sanshiro, Sakai Toshihiko e Yamakawa Hitoshi. L’episodio vide i manifestanti della fazione più radicale agitare le bandiere rosse provocatoriamente. La polizia reagì violentemente.
Nel maggio 1910 avvenne l’episodio gravissimo del "taigyaku jiken" (il caso di alto tradimento). Furono arrestati numerosi militanti socialisti, tra cui Kotoku Shusui, accusati di aver complottato l’assassinio dell’Imperatore. L’accusa era falsa e pretestuosa, ma trovò nelle parole a favore dell’azione diretta un indizio per essere sostenuta. In realtà la corrente più intransigente dei socialisti non era mai andata oltre il livello teorico nell’adesione all’anarchismo.
Tokutomi Roka (1868-1927) commentò così l’episodio:

"Sono chiamati ribelli e traditori, ma non erano dei ribelli ordinari, erano uomini dagli alti ideali […] che si sono sacrificati per un sogno, quello di un nuovo mondo di libertà e uguaglianza, uomini che desideravano fare del loro meglio per l’umanità. […] Kotoku e gli altri furono considerati dei ribelli dal governo e uccisi. Ma voi non dovete temere i ribelli. Non temete i ribelli. Non temete di diventare ribelli voi stessi. Tutto ciò che è nuovo è ribellione." (Bozza di una conferenza, 1911)

Dodici dei socialisti arrestati furono condannati a morte e impiccati. Fra di loro c’erano Kotoku Shusui e Kanno Sugako. Quest’ultima era stata giornalista, fidanzata di Arahata Kanson, convivente e amante di Kotoku, e aveva partecipato all’episodio delle "bandiere rosse". Le donne giapponesi ebbero un ruolo straordinario nella storia del movimento socialista. Ingiustamente trascurate dai testi occidentali, le donne giapponesi svolsero un’attività intensa che produsse i maggiori cambiamenti a livello sociale lottando per i diritti fondamentali (emancipazione, parità dei sessi, istruzione, suffragio universale). Inoltre aggiunsero nuove motivazioni e istanze alle rivendicazioni dei socialisti, contribuendo ad armonizzare le riforme e l’esistenza umana.
Contemporanea di Kanno Sugako fu Hiratsuka Raicho (1886-1971). Ella portò avanti il movimento di emancipazione femminile raccoltosi intorno alla rivista "Seito" (Calze blu, dal nome di un circolo femminile del XVIII secolo, blue stocking). In tempi recenti, la tradizione femminile socialista ebbe fra gli esponenti più significativi la signora Doi Takako che guidò il Nihon shakaito (Partito Socialista del Giappone) all’opposizione e a numerosi successi elettorali (in particolare nel 1989).
Si può così affermare che ogni epoca del Giappone vide l’impegno delle donne nel cambiamento sociale. L’emancipazione femminile avvenne in tempi così rapidi che sarebbe difficile spiegarla come un semplice riflesso dell’Occidente. In realtà le donne giapponesi avevano sempre avuto un’importanza fondamentale nella società giapponese. E questo avvenne anche per quanto riguarda il movimento socialista.
Higuchi Ichiyo (1872-1896) fu la più importante scrittrice del periodo Meiji, autrice di Takekurabe (Gara d’altezza, 1895) compose circa tremila tanka. Ella fu autodidatta e dimostrò la possibilità di emancipazione delle donne e delle classi modeste attraverso la diffusione della cultura e dell’istruzione.
Yosano Akiko (1878-1942) rappresentò un altro caso di donna emancipata e disinibita. Insistendo sulla necessità di liberare le donne dalle convenzioni, usò la poesia tradizionale (tanka) come mezzo di riscatto sociale. La donna raffigurata da Yosano Akiko era indipendente, consapevole delle sue scelte e dei suoi desideri. La poetessa non mancò di concretizzare nella sua esistenza questi ideali, dimostrandone la possibilità di realizzazione.
Hiratsuka Haruko (1886-1971), attivista socialista conosciuta con lo pseudonimo di Raichou, era chiamata "la donna della nuova era". Fra i suoi articoli ricordiamo Genshi josei wa taiyo de atta (Nei primordi la donna era il sole). Fu amante dello scrittore socialista Morita Yonematsu con il quale tentò il suicidio d’amore (shinju). Morita non comprese le motivazioni di Hiratsuka che desiderava il suicidio per "realizzare il suo ideale di vita, un viaggio solitario, una vittoria dei suoi vent’anni". Egli descrisse però la sua esperienza nel romanzo Fuliggine che divenne documento dello scandalo.
Come è qui emerso, il socialismo non fu soltanto un movimento politico, ma soprattutto un fervore intellettuale e culturale che rinnovò il Giappone. La letteratura giapponese fu profondamente influenzata dal socialismo, sia direttamente (per le tematiche) sia indirettamente (per fornire una risposta alternativa alle domande sollevate dai socialisti). E come tale il socialismo è intensamente e inseparabilmente legato alla storia del Giappone. Una storia mantenuta segreta in Occidente.
Se il socialismo è l’utopia dell’eguaglianza e della giustizia sociale, indipendentemente da ogni realizzazione pratica, sarà sempre immortale come ideale. E nessuna repressione potrà spegnere questa fiamma alimentata proprio dall’ingiustizia che vorrebbe soffocarla.

Bibliografia

AA.VV., Nihon no rekishi, Yomiuri shinbunsha, Tokyo, 1960.
Bravo, Gian Mario, Il Manifesto del Partito Comunista e i suoi interpreti, Editori Riuniti, Roma, 1978.
Engels, Friedrich e Marx, Karl, Manifesto del Partito Comunista, Edizioni Lotta Comunista, Milano, 1998.
Kato, Shuichi, Storia della letteratura giapponese, vol.3, Marsilio, Venezia, 1996.
Sato, Yoshimaru, Meiji nashonarizumu no kenkyu, Fuyo shobo, Tokyo, 1998.
Shiba, Ryotaro, Shiba Ryotaro ga kataru zasshi genron hyakunen, Chuo Koron sha, Tokyo, 1998.

La Prima Guerra Mondiale

Saggio sul Giappone nella Prima Guerra Mondiale pubblicato dal sito Nipponico.com.

Prima Guerra Mondiale
L'impegno dell'Impero del Sol Levante
di Cristiano Martorella

1. Premesse e considerazioni sulla storiografia

17 febbraio 2008. L'intervento del Giappone nella Prima Guerra Mondiale, in giapponese Daiichiji sekai taisen, è poco ricordato nei libri di storia occidentali. Ciò avviene perché politicamente scomodo. Infatti risulta estremamente facile condannare il militarismo giapponese quando è schierato con gli avversari ed è sconfitto, mentre è difficile accusarlo quando è alleato delle nazioni democratiche occidentali ed è vittorioso. In realtà la potenza militare del Sol Levante fu sostenuta e incoraggiata dalle potenze europee quando si opponeva alle nazioni rivali come la Germania e la Russia, mentre divenne invece una insidia quando minacciò gli interessi occidentali nell'Estremo Oriente. Ciò appare evidente con la Prima Guerra Mondiale, quando il Giappone era schierato con la Gran Bretagna e la Francia. Insomma, si trattò di un uso strumentale che non teneva in alcuna considerazione la diffusione dei diritti civili, e non sostenne in modo adeguato la fragile democrazia giapponese aggredita dagli estremismi. Nei libri di storia occidentali si racconta che il Giappone fosse un paese autoritario che divenne democratico solo dopo la sconfitta della Seconda Guerra Mondiale (1) nel 1945. Curiosamente questo stesso paese era alleato delle potenze occidentali nella Prima Guerra Mondiale, ossia già nel 1914. All'inizio del Novecento l'Impero del Sol Levante divenne una temibile potenza militare con il sostegno dell'Occidente fra il plauso e le lodi di tanti ammiratori, e anche parecchi aiuti materiali (2). Nel Giappone non vi era nulla di corrotto, lo era invece la mentalità dell'epoca che credeva nella forza degli eserciti e nel colonialismo come diffusione della civiltà. Questo saggio vuole raccogliere la descrizione puntuale e puntigliosa di alcuni eventi della Prima Guerra Mondiale ignorati dalla stampa. Ciascuno potrà poi trarne liberamente le dovute conseguenze cercando di conoscere la storia in modo completo e non lacunoso.

2. Il coinvolgimento politico e militare

Il coinvolgimento del Giappone nella Prima Guerra Mondiale fu abbastanza rapido. Ecco la cronologia degli eventi. A causa dell'attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914, l'Austria dichiara guerra alla Serbia il 28 luglio. Il giorno 1 agosto 1914, la Germania dichiara guerra alla Russia. Il 3 agosto la Germania dichiara guerra alla Francia, il 4 agosto la Gran Bretagna dichiara guerra alla Germania, e il 12 agosto all'Austria. Il Giappone, su sollecitazione della Gran Bretagna, dichiara guerra alla Germania il 23 agosto 1914, appena tre settimane dopo l'inizio delle ostilità. L'intervento del Giappone fu voluto dalla Gran Bretagna, anche se riluttante e timorosa per l'ascesa della potenza nipponica. D'altronde il ruolo del Giappone nell'Oceano Pacifico era cruciale. La più potente flotta nell'Oceano Pacifico era giapponese. Soltanto i giapponesi potevano bloccare le navi tedesche presenti nelle vicinanze delle colonie, e impedire la minaccia e l'attacco tedesco verso l'India e l'Indocina. La Gran Bretagna aveva firmato già molti trattati d'alleanza con il Giappone. Il trattato anglo-giapponese del 1902 era stato rinnovato nel 1905, eppoi nel 1911. Il Giappone garantiva la protezione dell'India, possedimento britannico, dalle mire espansionistiche di Germania e Russia. Ma gli accordi fra Gran Bretagna e Giappone disturbavano la potenza americana. Gli Stati Uniti volevano espandere la loro influenza anche in Asia, inoltre avevano gravi problemi di politica interna con gli immigrati giapponesi. Essendo ottima manodopera capace di avviare attività imprenditoriali, gli immigrati giapponesi disturbarono i locali cittadini statunitensi e i loro egoistici interessi. Si arrivò addirittura a promulgare aberranti leggi locali contro i giapponesi. I bambini giapponesi erano esclusi dalle scuole col pretesto della mancanza di aule. Col Webb Act votato nello stato di California nel 1913, si vietava ai cittadini giapponesi di possedere terre. Queste angherie accrebbero smisuratamente il senso d'inferiorità e la volontà di riscatto dei giapponesi fermamente decisi a confrontarsi sullo stesso campo di battaglia degli occidentali: lo sviluppo della potenza militare.

3. L'impiego della marina militare

Nel 1914 la Marina imperiale giapponese (Dainihon teikoku kaigun) era la forza navale più potente presente nell'Oceano Pacifico, superiore anche ai contingenti statunitensi e britannici (3). Essa era composta da 22 corazzate, 2 incrociatori da battaglia, 15 incrociatori corazzati, 19 incrociatori protetti, 50 cacciatorpediniere, 40 torpediniere e 13 sommergibili. Le unità (4) più importanti erano le navi da battaglia Kawachi, Settsu, Fuso, Yamashiro e Ise, gli incrociatori Kongo, Hiei, Haruna, Kirishima, Kurama, Izumo, Iwate e Ibuki, gli incrociatori leggeri Chikuma, Hirado, Yahagi e Tone, i cacciatorpediniere Umikaze, Yamakaze, Sakura, Tachibana, Urakaze. Durante il periodo 1914-1918 furono impostate e costruite nuove navi da guerra, più potenti e innovative. Esse erano le navi da battaglia Nagato e Mutsu, gli incrociatori Tatsuta, Kuma, Tama e Yubari, i cacciatorpediniere Kaba, Kaede, Katsura, Kashiwa, Kusunoki, Matsu, Sakaki, Sugi e Ume. Tutte queste navi furono rilevanti e pregevoli, tanto che alcune di esse parteciparono anche alla Seconda Guerra Mondiale. Le corazzate Fuso e Yamashiro, costruite rispettivamente negli arsenali di Kure e Yokosuka nel 1912 e 1913, erano navi dalle linee armoniose, con l'armamento ripartito in due gruppi, e la protezione con una blindatura laterale massima di 305 mm. Entrambe affondarono nella battaglia dello stretto di Surigao il 25 ottobre 1944. Gli incrociatori Kongo, Haruna, Hiei e Kirishima, costruiti nel periodo 1911-1915, parteciparono a entrambi i conflitti mondiali. Al loro ingresso in servizio suscitarono notevole impressione perché imbarcavano un armamento principale che non trovava riscontro su nessun'altra unità similare, con 8 cannoni da 356 mm. La protezione raggiungeva uno spessore di 203 mm. L'apparato motore si componeva di 4 turbine ad accoppiamento diretto, con una potenza di 64000 HP e una velocità di 27,5 nodi. Kirishima e Hiei affondarono nel novembre del 1942 nelle acque di Guadalcanal, il Kongo affondò il 21 novembre 1944 presso Formosa, e l'Haruna fu distrutto dal bombardamento aereo del 27 luglio 1945 sull'arsenale di Kure. Quando apparvero nel 1907, l'Ibuki e il Kuruma furono i più potenti incrociatori corazzati costruiti al mondo. Durante la Prima Guerra Mondiale parteciparono alle operazioni intorno a Tsingtao e alla caccia alla squadra navale di Maximiliam von Spee. L'Ibuki fu la prima nave giapponese a imbarcare un apparato motore a turbina. Ritenuti superati, Ibuki e Kuruma furono smantellati nel 1923. La Marina imperiale giapponese vantò anche un altro primato. Essa fu fra le prime, insieme a quella di Stati Uniti e Gran Bretagna (5), a possedere navi adibite al trasporto di aerei. La Wakamiya Maru era una nave appoggio in grado di trasportare quattro idrovolanti Farman. Varata nel 1913, questa unità era capace di depositare con le sue gru gli aerei in acqua per il decollo, eppoi recuperarli dopo l'ammaraggio. Gli aerei Farman MF.7 erano impiegati come ricognitori e come bombardieri con circa dieci piccole bombe. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la Wakamiya Maru salpò alla volta del porto cinese di Tsingtao, colonia tedesca. Il 5 settembre 1914, due Farman giapponesi sganciarono alcune bombe sulla batteria costiera. Il 13 ottobre ci fu un duello aereo fra un velivolo Taube tedesco e un Farman giapponese. Si trattò del primo scontro fra aeroplani della Prima Guerra Mondiale. In totale, durante l'assedio di Tsingtao, conclusosi con la capitolazione tedesca, gli aerei della Marina imperiale giapponese eseguirono 50 missioni e sganciarono 200 bombe, affondando anche una silurante.
Gli eventi che portarono il Giappone alla guerra contro la Germania furono abbastanza rapidi. Come alleato della Gran Bretagna, il Giappone inviò un ultimatum alla Germania il 15 agosto 1914, esigendo la resa della base tedesca di Tsingtao. Le forze navali germaniche, agli ordini del capitano di vascello Mayer-Waldeck, erano composte dalle cannoniere Jaguar, Tiger, Iltis, e Luchs, dal cacciatorpediniere S 90 e dall'incrociatore protetto austriaco Kaiserin Elisabeth. La squadra navale nipponica era comandata dal viceammiraglio Satou, ed era composta dalle corazzate Suwo, Iwami e Tango, dagli incrociatori corazzati Iwate, Tokiwa e Yakumo, dall'incrociatore protetto Tone, e circa una dozzina di cacciatorpediniere. Le unità impiegate dal Giappone non erano le più importanti e moderne che restavano invece in riserva a difesa del Giappone. Ad esempio, la corazzata Suwo era una vecchia nave russa, la Poltava, catturata a Tsushima. Le navi moderne erano risparmiate e tenute al riparo per l'impiego nelle battaglie strategiche della futura espansione dell'Impero giapponese. Scaduto l'ultimatum, il giorno 23 agosto 1914, i giapponesi incominciarono la guerra. Il primo sbarco avvenne a 150 km a nord di Tsingtao. Il 4 settembre il cacciatorpediniere Shirotaye si incagliò in una roccia e fu perduto. Il 28 settembre iniziò un massiccio fuoco contro le postazioni nemiche dalle corazzate Suwo, Iwanami e Tango, coadiuvate dalle artiglierie di terra. Il cacciatorpediniere tedesco S 90 cercò la fuga, e durante la navigazione si scontrò con l'incrociatore giapponese Takachiho che affondò con tre siluri. Tuttavia l'S 90 fu costretto all'autoaffondamento perché non aveva nessuna base dove ripararsi e rifornirsi. Il 7 novembre 1914 la base tedesca si arrese definitivamente. Le forze giapponesi erano soverchianti e controllavano vaste zone dell'Oceano Pacifico. Queste condizioni furono determinanti allo spostamento delle forze germaniche dall'Oceano Pacifico, un ritiro forzato che costò la perdita di numerose unità. La squadra navale del viceammiraglio Maximilian Johannes von Spee, che schierava gli incrociatori corazzati Scharnhorst e Gneisenau, partì dall'isola di Pagan, raggiunse Tahiti, poi l'isola di Pasqua, e superato lo stretto di Magellano, affrontò nell'Oceano Atlantico le navi britanniche. L'8 dicembre 1914 la squadra di Spee fu distrutta nella battaglia delle Falkland.
La flotta giapponese aveva raggiunto i suoi scopi avendo eliminato le navi tedesche dall'Oceano Pacifico. Essa rimase inattiva fino al 1917, quando fu richiesto il suo intervento nel Mediterraneo. Si creò infatti una condizione inaspettata. I sommergibili tedeschi del tipo U-Boot erano divenuti una minaccia terribile per il traffico marittimo. In particolare la Francia che era impegnata in una vera lotta per la sopravvivenza, col nemico già penetrato oltre i confini nazionali, non era disponibile a temporeggiare. I rifornimenti che raggiungevano la Francia sulle rotte del Mediterraneo erano indispensabili. Così Gran Bretagna e Francia chiesero aiuto al Giappone. Era anche considerata la disponibilità da parte della flotta giapponese di ottimi cacciatorpediniere, fra i più moderni e versatili costruiti in quel periodo. Allora fu composta una squadra navale comandata dal viceammiraglio Satou, costituita dall'incrociatore protetto Akashi e dodici cacciatorpediniere, fra cui ricordiamo il Katsura, il Kusunoki e l'Ume. La squadra navale penetrò in Mediterraneo operando in completa sicurezza e allontanando i sommergibili nemici dalle rotte cruciali. Notevole fu l'impatto politico e morale di questa operazione. La squadra giapponese era la prima flotta asiatica nella storia che penetrava le acque europee per condurvi operazioni militari.
Il contributo bellico del Giappone fu anche rappresentato da importanti rifornimenti militari agli alleati. Nel 1917 il Giappone fornì alla Francia ben dodici cacciatorpediniere del tipo Kaba. Essi costituirono la classe Algerien e restarono in servizio fino al 1936, anno della radiazione e demolizione. Questi successi spinsero le autorità politiche del Giappone a consolidare e rafforzare i piani di potenziamento dell'apparato militare, purtroppo con le conseguenze tragiche che ben conosciamo.

4. Il debutto dell'aeronautica

I giapponesi furono i primi a comprendere l'importanza dell'aeroplano come macchina da guerra (6). L'Impero del Sol Levante aveva intensificato la crescita dell'industria che era pari alle maggiori potenze. Il primo aeroplano a volare era stato un biplano pilotato dal capitano Tokugawa Yoshitoshi, il giorno 19 dicembre 1910. Come ben sanno gli esperti di aeronautica, ciò che è fondamentale nella costituzione di una forza aerea è l'addestramento dei piloti. I giapponesi perseguirono questo scopo raggiungendo straordinari risultati. I successi militari del Giappone furono conseguiti soprattutto grazie alla preparazione e competenza del personale tecnico e dei piloti.
La formazione dell'aviazione giapponese cominciò nel 1909, quando fu formato uno speciale comitato per lo sviluppo dell'aeronautica. Ne facevano parte personalità di spicco sia militari che civili, con forte partecipazione di scienziati e docenti universitari. I piloti erano addestrati nelle scuole straniere, e gli ufficiali inviati in Francia e negli Stati Uniti. In questo ambiente crebbe il capitano ingegnere del genio navale Nakajima Chikuhei (7), un talento dell'aeronautica che congedatosi nel 1917 fondò l'Istituto dell'Aeroplano presso la prefettura di Gunma, eppoi la società Nakajima Hikoki. Nel 1910 era volato il primo aeroplano pilotato da un giapponese. Nel 1911 l'Esercito imperiale disponeva di tre Farman, un Antoinette, un Blériot, e due Wright. Presso l'aeroporto militare di Tokorozawa nella prefettura di Saitama, venne realizzata una fabbrica per la costruzione di aeroplani su disegni originali giapponesi. Così già nel 1912 volavano i due primi aeroplani costruiti in Giappone. Perciò quando i giapponesi attaccarono la colonia tedesca di Tsingtao, fecero un uso intenso degli aerei in loro possesso. Furono utilizzati otto aeroplani, di cui quattro idrovolanti biplani. Con queste macchine furono effettuati numerosi bombardamenti sulle fortificazioni e le imbarcazioni. Gli aerei erano equipaggiati con rastrelliere per il lancio di bombe ottenute da grossi proiettili di artiglieria muniti di dispositivi direzionali. Così fu affondata una nave silurante tedesca dagli abili aviatori nipponici. Inoltre i velivoli giapponesi si scontrarono in combattimento con un monoplano tedesco del tipo Taube.

5. La fine del conflitto e gli accordi internazionali

Nel 1918 la guerra ebbe termine, e il Giappone partecipò come nazione vincitrice alla conferenza di pace di Versailles. L'Impero del Sol Levante aveva ottenuto molti benefici senza gravosi oneri e pochissime perdite. Così gli vennero assegnati i territori germanici dello Shantung, il mandato sulle isole Marshall, Caroline e Marianne (tranne Guam). Ciò irritò terribilmente gli ambienti politici statunitensi ostili all'espansionismo nipponico in Cina e nel Pacifico. D'altronde i piani giapponesi di riarmo erano preoccupanti, e l'occupazione della Cina era un fatto grave non trascurabile. Durante la guerra, il Giappone aveva addirittura inviato una richiesta diplomatica, nota come "le ventun domande", al Presidente della Repubblica cinese Yuan Shih-kai. In questo documento si chiedevano zone di influenza nei territori dello Shantung, Honan e Manciuria. Inoltre si chiedeva di inserire personale giapponese nell'amministrazione pubblica e nella polizia cinesi. Era concretamente un tentativo di trasformare la Cina in un protettorato o colonia del Giappone. Yuan Shih-kai non aveva la forza di reagire e subì l'assalto dell'Impero del Sol Levante. Soltanto gli Stati Uniti si schierarono in difesa della Cina, e cercarono con la diplomazia di limitare le pretese giapponesi. Un compromesso fu raggiunto col trattato di Washington firmato il 6 febbraio 1922. Questo accordo fissava una limitazione negli armamenti navali, e quindi una riduzione della politica espansionistica delle grandi potenze, inclusi Stati Uniti e Giappone. Il contrammiraglio Ueda Yoshitake commentò l'accordo affermando che il Giappone non era ancora pronto a una guerra con gli Stati Uniti, ma non avrebbe sopportato a lungo la prepotenza di chi voleva schiacciarlo. I giapponesi si stavano preparando a combattere per sopravvivere, così almeno credevano. Era convinzione diffusa dell'epoca che i conflitti fra nazioni per il possesso delle risorse economiche fossero inevitabili.
La Prima Guerra Mondiale si concluse senza una effettiva risoluzione dei conflitti. La Germania avrebbe presto ripercorso il cammino che portava allo scontro con la Francia e la Gran Bretagna, mentre il Giappone avrebbe invaso la Cina (8). Come si deduce facilmente, fu la politica di potenza ed espansione a determinare il corso della storia del XX secolo. Il Giappone seguì lo stesso sventurato cammino delle nazioni occidentali. Risulta ingannevole credere che questo percorso sia determinato dalle istituzioni democratiche oppure autoritarie dei paesi in conflitto. In verità, come si è visto, la motivazione che fece agire le nazioni nella Prima Guerra Mondiale fu la volontà di potenza, ossia la loro politica espansionistica e colonialista. Questa politica apparteneva alle democrazie liberali come Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, quanto ai successivi regimi fascisti di Italia, Germania e Giappone. Si evince anche quanto le democrazie accettino facilmente le collaborazioni con i regimi autoritari se utili a perseguire i loro scopi di espansione commerciale ed economica. Il Giappone, non bisogna dimenticarlo mai, fu un alleato di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale. Non si può cancellare questo fatto storico compromettente.
Le cause che scatenano le guerre sono il desiderio di possesso, la brama di potere, l'interesse economico. Le democrazie non sono immuni a questi impulsi, e la storia del colonialismo europeo ne è la dimostrazione più lampante. La Prima Guerra Mondiale è l'apice di questa mentalità che trova espressione nella politica di potenza. Il Giappone, anche se erede della tradizione orientale, condivise con pervicacia la medesima prospettiva, e divenne un artefice del progetto di modernità occidentale tanto da subirne le nefaste conseguenze.

Note

1. Anche Francis Fukuyama, in linea con la versione americana della democrazia esportata in Giappone, espone la stessa distorta visione mal documentata. La democrazia dell'epoca Taisho (1912-1926), basata su un sistema parlamentare eletto dai cittadini, viene completamente ignorata. Cfr. Fukuyama, Francis, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1996, p.71.
2. Gli aiuti più consistenti vennero dalla Gran Bretagna, la Francia, la Germania e anche l'Italia. Per quanto riguarda l'Italia, ricordiamo che nel 1904 il Giappone aveva in servizio due grossi incrociatori corazzati costruiti in Italia: il Kasuga e il Nishin. Il Kasuga pesava 7628 tonnellate, aveva una potenza di 14800 HP erogata da motori Ansaldo, una velocità di 20 nodi, e il cannone principale di prua era calibro 254 mm, mentre due calibro 203 mm erano a poppa. Kasuga e Nishin furono impiegati nella guerra russo-giapponese (1904-1905). Il Kasuga fu determinante nel bombardamento di Port Arthur con il suo potente cannone, e rilevante nella battaglia di Tsushima.
3. Ma le forze americane erano presenti maggiormente nell'Oceano Atlantico, a protezione delle rotte per l'Europa, e quelle britanniche nell'Oceano Indiano e nel Mediterraneo, per salvaguardare le colonie, e nell'Oceano Atlantico per garantire la difesa della madrepatria. Il Giappone possedeva alcune navi sottratte alla Russia durante la guerra del 1904-1905, e ciò spiega il numero elevato di unità in suo possesso. Però la sua industria non era ancora in grado di competere con gli Stati Uniti, nonostante i buoni risultati raggiunti e l'eccellenza in alcuni casi particolari.
4. La trascrizione dei nomi delle navi giapponesi, qui adottata, segue la convenzione usata dalle pubblicazioni dello Stato Maggiore della Marina italiana. Per evitare equivoci e fraintendimenti si sono conservati i nomi nella vecchia trascrizione già nota ai lettori italiani.
5. La prima nave della U.S. Navy ad essere adattata per il trasporto e decollo di aerei fu la Langley. La Langley era una autentica portaerei con un ponte di volo completo. Gli inglesi ottennero risultati simili con la Argus e la Furious, le prime portaerei della Royal Navy. Il Giappone può però vantare il primato di aver costruito la prima portaerei progettata e realizzata per tale scopo: la Hosho (1921). A differenza delle altre unità, che erano navi modificate e adattate per divenire portaerei, la moderna Hosho era una portaerei costruita appositamente su progetto specifico. Essa partecipò alla guerra cino-giapponese, al conflitto mondiale del 1941-1945, e fu radiata solo nel 1947.
6. Il preciso e puntuale articolo di Pier Francesco Vaccari pubblicato dalla rivista "RID" è esplicativo dello sviluppo dell'aereo da combattimento in Giappone. Cfr. Vaccari, Pier Francesco, La nascita e lo sviluppo delle forze aeree imbarcate giapponesi, in "RID - Rivista Italiana Difesa", n.12, anno XXV, dicembre 2006. I progettisti giapponesi ottennero buoni risultati con gli aerei da caccia e gli aerosiluranti, spesso superiori a quelli corrispettivi occidentali. Eccellenti per per le prestazioni di velocità, qualità aerodinamiche e maneggevolezza, anche gli idrovolanti e i ricognitori. Invece, a causa delle carenze della potenza dei propulsori, furono sempre deficienti i bombardieri pesanti scarsamente protetti e con un carico di bombe insufficiente.
7. Cfr. Sgarlato, Nico, I caccia Nakajima di Koyama e Itokawa, in "Aerei nella Storia", n.50, anno VIII, ottobre-novembre 2006.
8. Il 18 settembre 1931 a causa dell'attentato a Mukden, i giapponesi invasero la Manciuria. Nel 1932 venne creato il Manchukuo, uno stato fantoccio sotto il controllo giapponese. Nel 1933 l'occupazione della Cina settentrionale fu estesa ulteriormente. Il 7 luglio 1937 con l'incidente del ponte Marco Polo iniziò la guerra cino-giapponese su tutto il territorio del paese.

Bibliografia

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Halliday, Jon, Storia del Giappone contemporaneo. La politica del capitalismo giapponese dal 1850 a oggi, Einaudi, Torino, 1979.
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Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche. Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
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Maruyama, Masao, Le radici dell’espansionismo. Ideologie del Giappone moderno, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1990.
Matricardi, Paolo, Il grande libro degli aerei da combattimento, Editoriale Domus, Milano, 2007.
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Takeshita, Toshiaki, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, Clueb, Bologna, 1996.
Vaccari, Pier Francesco, La nascita e lo sviluppo delle forze aeree imbarcate giapponesi, in "RID - Rivista Italiana Difesa", n.12, anno XXV, dicembre 2006.
Vantaggi, Adriano, Giappone 1853-1905: Dalla fine dell’isolamento al ruolo di grande potenza, Lassa-Scalese, Genova, 1984.
Villani, Pasquale, Trionfo e crollo del predominio europeo, Il Mulino, Bologna, 1983.

venerdì 14 agosto 2009

Fukoku kyohei, militarismo e colonialismo

Articolo sul militarismo giapponese pubblicato dal sito Nipponico.com.

Fukoku kyohei
Militarismo, colonialismo e libero mercato
di Cristiano Martorella

19 giugno 2005. L’espressione fukoku kyohei (paese ricco ed esercito forte) fu lo slogan usato nell’era Meiji (1868-1912) che ben descrive il militarismo (gunkokushugi) che permeò il moderno Giappone fino alla metà del XX secolo. Dell’argomento si parla spesso con superficialità cadendo nelle consuete banalizzazioni strumentali all’ideologia corrente, senza capire quali siano le motivazioni dell’agire dei protagonisti della storia. Perciò è necessario fare un po’ di chiarezza anche a costo di essere anticonformisti e controversi. Soprattutto sarà il metodo storico comparativo(1) a permetterci di analizzare gli eventi liberandoci della visione pregiudizievole dell’ideologia. Non bisogna dimenticare che lo storico Noro Eitaro (1900-1934) nella sua Storia dello sviluppo del capitalismo giapponese (Nihon shihonshugi hattatsushi) dimostrò per primo la validità del metodo comparativo applicato alla storia giapponese (2).
Lo scopo della nostra analisi verterà quindi sull’esplicazione dei rapporti fra militarismo e libero mercato, mettendo in evidenza i seguenti punti:

1) Differenza fra il militarismo capitalista moderno e il militarismo aristocratico feudale;
2) Origini rurali dell’estrema destra giapponese e debolezza della borghesia liberale;
3) Imitazione giapponese del modello coloniale e militarista occidentale;
4) Persistenza del modello militarista "paese ricco ed esercito forte" nelle democrazie del XXI secolo.

La distinzione fra guerrieri aristocratici samurai ed esercito nazionale di plebei della leva obbligatoria, appare chiaramente evidenziando alcuni eventi cruciali della storia. La coscrizione obbligatoria per l’esercito fu avviata nel 1873, ed era soltanto uno dei passaggi di un grande processo di mutamento della struttura sociale giapponese. I samurai erano stati per secoli i migliori funzionari del Giappone feudale. Oltre ad essere guerrieri abilissimi, erano preparati nelle lettere e nelle arti, risultando un ottimo strumento dell’amministrazione finché non apparve con risalto il declino del potere dello shogun. Il Giappone feudale si scontrò con le nazioni colonialiste occidentali, presentando l’impossibilità di competere con l’organizzazione moderna industriale, anche e soprattutto con la struttura burocratica nazionalista degli stati capitalisti del XIX secolo. Il Giappone era un efficiente impero feudale dell’Oriente, ciò non era però sufficiente per un confronto paritario con la forza militare dell’Occidente finché non fosse divenuto uno stato moderno capitalista. D’altronde era la forza militare che garantiva la penetrazione dei commerci occidentali nelle colonie, garantendo l’esistenza di un libero mercato imposto con l’uso delle armi (3). La coscrizione obbligatoria era soltanto un passaggio della trasformazione del Giappone. Però i samurai, esclusi e ridimensionati nella nuova società, si ribellarono all’evidente svantaggio che li privava dei privilegi e diritti della casta aristocratica, a partire dal diritto di portare pubblicamente le due spade simbolo del guerriero. Già nel 1874 si ebbe a Saga una rivolta guidata da Eto Shinpei (1834-1874) soffocata dal governo. Nel 1876 la ribellione dei samurai avvenne a Kumamoto. Poco dopo la rivolta esplose a Kagoshima, dove quindicimila samurai si scontrarono con quarantamila contadini arruolati e ben equipaggiati dal governo. Il capo dei ribelli era Saigo Takamori (1827-1877), già ministro dimessosi per protesta e valente guerriero. Ma i samurai erano ormai sia tecnicamente sia politicamente obsoleti, e non poterono opporsi all’avanzata delle riforme propulse dall’accoppiata industria e capitale. Il 24 settembre 1877, Saigo Takamori fu sconfitto e perse la vita nell’ultimo scontro decisivo per i samurai.
Lo scontro fra samurai ed esercito di coscritti ebbe come conseguenza anche le rivendicazioni sociali di una massa di plebei che erano ben lontani dalle idee illuministe di eguaglianza, fratellanza e libertà, concetti recepiti soltanto dalla borghesia colta e da alcuni aristocratici intellettuali (4). Questi strati della plebe alimentarono la formazione di una destra estremista che in nome del patriottismo auspicava l’uso della violenza per imporre il proprio governo autoritario. Un tentativo riuscito che portò prima alla penetrazione nelle forze armate, poi al controllo del governo da parte dell’esercito. La formazione di forze armate composte da contadini fu un processo che attinse a un movimento spontaneo. I contadini avevano costituito autentici eserciti ostili al governo dello shogun, il bakufu, e le loro rivolte avevano indebolito il potere militare dei Tokugawa, fino al crollo definitivo nel 1867. La coscrizione obbligatoria del 1973 integrò i contadini nella nuova società, però comportò anche gravi squilibri. Praticamente il nuovo stato nasceva tramite una militarizzazione di massa, a discapito delle forze sane e propulsive dell’economia come i commercianti (chonin). Intanto il malcontento dei samurai fu placato inserendoli nell’apparato burocratico come funzionari governativi, amministratori locali, membri della polizia, e personale scolastico docente e amministrativo. Ruoli che svolsero zelantemente grazie all’indubbia preparazione.
Il governo Meiji, preoccupato della minaccia di insurrezioni, cercò di evitare ad ogni costo il conflitto di classe generando così una situazione pericolosa ignorata da tutti, ovvero la militarizzazione della società. Anche l’industria si sviluppò in tal senso privilegiando l’industria pesante utile alle costruzioni belliche. Questi squilibri erano amplificati dalla debolezza della borghesia giapponese. Lo sviluppo del paese aveva come obiettivo la potenza militare, viceversa mancava una borghesia intellettuale che sostenesse l’arricchimento del paese per il benessere dei cittadini. C’erano numerose eccezioni, ma si trattava di intellettuali dalle idee brillanti che raramente trascinavano il consenso delle masse. Ed erano essi stessi a denunciare la pericolosità del conformismo dell’opinione pubblica. Lo slogan fukoku kyohei (paese ricco ed esercito forte) andava così interpretato come paese ricco per un esercito forte, ciò nell’acclamazione generale delle folle. Nonostante l’impiego di masse contadine, l’esercito fu molto lontano dall’avere un pur minimo aspetto democratico essendo ancora dominato da interessi personali. Yamagata Aritomo del feudo di Choshu assunse il comando della guardia imperiale dal 1872, così da stabilire il predominio della sua signoria sull’esercito fino all’inizio del XX secolo. Yamagata Aritomo fu anche l’artefice di una ordinanza che stroncava qualsiasi attività democratica nell’esercito, e imponeva una rigida politica reazionaria. Paradossalmente si formava così un esercito privo di ideali aristocratici e composto da plebei ostili alla democrazia, inoltre ciò avveniva in un paese formalmente democratico con leggi e istituzioni liberali. Purtroppo un simile processo non era qualcosa di particolare, ma aveva come modello le potenze coloniali occidentali. D’altronde gli eserciti occidentali delle democrazie liberali non hanno mai avuto alcun ordinamento democratico, costituendo la contraddizione palese di un sistema autoritario gerarchico all’interno di sistemi politici a rappresentanza elettorale. La contraddizione è tuttora ignorata, anche quando le forze armate delle democrazie si rendono colpevoli di crimini di guerra, sempre definiti come rare eccezioni, in realtà né rare né eccezioni.
La struttura dell’esercito giapponese divenne estremamente pericolosa quando cominciò a controllare la politica e a saldare l’alleanza con le cricche economiche (zaibatsu). Il binomio libero mercato e militarismo non è così inconsueto se si considerano le economie delle potenze coloniali occidentali. Il militarismo giapponese non è un’eccezione, ma il perseguimento di una regola, quella regola espressa dallo slogan paese ricco ed esercito forte.
Il fenomeno delle formazioni politiche paramilitari e militari è tipico della prima metà del XX secolo, e può essere inquadrato col termine fashizumu (fascismo) usato ampiamente anche da Maruyama Masao. Anche se è ancora controversa la definizione di "fascismo giapponese", poiché mancava un partito unico ed esistevano altre caratteristiche peculiari, si può essere concordi su ciò che si intende definire (5). Come fasciste si intendono le organizzazioni militari armate che praticavano violenze, compreso l’omicidio degli avversari politici e il colpo di stato, con lo scopo di controllare il paese e rafforzare la propria ideologia distorta della via dell’imperialismo (kodo). Queste formazioni militari avevano origine nelle campagne ancora radicate a valori reazionari e antiprogressisti, in tutto e per tutto ostili ai valori liberali. Per queste masse di contadini la dialettica delle istituzioni democratiche era una degenerazione sociale e politica. Non accettavano i principi liberali e la garanzia dei diritti, invocando invece il principio d’autorità, il rispetto delle gerarchie e l’uso della forza. Ci furono parecchi fautori della svolta autoritaria che tentarono di teorizzare ciò che gli eventi tumultuosamente affermavano. Uchida Ryohei (1874-1937) sosteneva che i confini del Giappone dovessero essere estesi fino al fiume Amur in Cina, e fondò la Kokuryukai (Società del drago nero). Un altro leader ultranazionalista fu Toyama Mitsuru (1855-1944), fautore del dominio dell’Asia sotto la guida del Giappone (panasiatismo nipponico) e organizzatore di numerosi attentati politici. Sicuramente il primo e più agguerrito teorico del nazionalismo estremista giapponese fu Kita Ikki (1883-1937) che sosteneva l’eliminazione del parlamento, l’abolizione della costituzione, l’instaurazione di un’economia popolare contro zaibatsu e latifondi, e l’occupazione della Cina. Kita Ikki fu implicato in un tentativo di colpo di stato e venne giustiziato proprio da quella autorità imperiale che egli strumentalmente appoggiava.
Il 15 maggio 1932 il primo ministro Inumai Tsuyoshi fu assassinato da un gruppo di ufficiali dell’esercito e della marina ponendo fine all’ultimo governo sostenuto dai partiti senza influenze militari. Il 26 febbraio 1936 si sollevarono ventidue giovani ufficiali dell’esercito e della marina alla guida di 1400 uomini che uccisero alcuni importanti politici, fra cui il ministro delle finanze Takahashi Korekiyo e l’ammiraglio Saito Makoto, e occuparono vari palazzi. In nome di una presunta autorità imperiale, essi invocarono un rinnovamento del paese e la fedeltà assoluta all’imperatore. Fu lo stesso imperatore Hirohito a soffocare la sommossa inviando l’esercito contro i ribelli. Però la situazione era ormai compromessa, e con la giustificazione dell’ordine pubblico l’esercito eliminò ogni opposizione. L’imperatore Hirohito rimase così ostaggio della politica militarista, e anche se appoggiò i leader moderati e contrari alla guerra, come Konoe Fumimaro, non riuscì ad opporsi con forza alla follia dei governi presieduti da generali come Tojo Hideki.
I militari erano fuori dal controllo delle istituzioni e prendevano iniziative autonome che trascinavano poi il paese nel baratro oscuro (kurai tanima). Risulta evidente che chi doveva difendere le istituzioni le stava invece demolendo. Inoltre lo scontro nelle forze armate era esasperato perché da una parte la marina (kaigun) si ispirava al modello inglese, non concordando gli obiettivi con l’esercito (conquista della Cina e guerra con gli Stati Uniti), dall’altra anche all’interno dell’esercito chi si opponeva alle concezioni retrograde era considerato un avversario da eliminare.
Questa situazione complessa è ancora più articolata se si considera dinamicamente il quadro che la costituisce. Il militarismo giapponese fu alimentato dal movimento rurale (nohonshugi) delle campagne che fornì l’ideologia e gli uomini, trovò nell’esercito la struttura e l’istituzione che permetteva la penetrazione politica, ma il sostegno materiale fu fornito dai gruppi economici (zaibatsu) che attraverso la guerra potevano trovare uno sbocco commerciale per le produzioni belliche. Capitalismo e ruralismo si accoppiarono col comune interesse di creare nuovi mercati attraverso l’uso della forza militare, così da perpetuare il modello famigliare al di là dei confini nazionali. Perciò è appropriata l’espressione che definisce la grande famiglia panasiatica (daitoa kyoeiken), l’area di comune prosperità, anche se distorta, illiberale e assurda. Però ancora oggi non è stata soppiantata l’idea di creare un modello politico unico attraverso l’uso della forza militare e l’espansione del mercato economico. Dopo la fine del fascismo e del socialismo, sembra essere in discussione anche l’univoco modello della democrazia capitalista come modello egemone, perché nella forma della globalizzazione ricompare lo stesso militarismo che si era alleato col capitalismo. Con la giustificazione della lotta al terrorismo, non sono più i fascisti a sostenere la necessità dell’uso della forza militare per garantire l’ordine sociale, ma i governi democratici. Uno smacco che annienta secoli di lotte per i diritti civili.

Note

1. Il metodo comparativo applicato alle scienze storico-sociali è estremamente efficace ma difficilmente recepito nella sua portata e profondità. Illustri storici come Otto Hintze, Karl Lamprecht, Wilhelm Roscher e Max Weber, fecero ampio uso del metodo comparativo. Nella formazione accademica di chi scrive ha avuto importanza l’insegnamento di Giuseppe Di Costanzo, studioso appunto di questi autori presso l’Università Federico II di Napoli.
2. Sempre Noro Eitaro affermò che bisogna prendere in esame l’ineluttabilità (hitsuzen) della storia, piuttosto che l’occasionalità (guzen). La storia non è un racconto qualunque che si può interpretare a piacere, ma una connessione di fatti.
3. Emblematici i casi dell’India e della Cina sottomesse dalla forza della più potente economia liberista del mondo. La Gran Bretagna, culla della rivoluzione industriale e fautrice del libero mercato, fu anche il più grande impero coloniale del XIX secolo, estendendo i suoi domini e il controllo dei traffici commerciali su tutto il pianeta. Truppe e cannoniere britanniche tutelavano sia gli interessi politici sia quelli economici, spesso coincidenti. Fu per motivi commerciali che scoppiò la Guerra dell’oppio (1840-1842). Infatti fu imposto alla Cina di importare l’oppio prodotto dalle colonie britanniche nell’Asia centrale. Il rifiuto portò al bombardamento di Nanchino, il blocco di Canton e l’acquisizione di Hong Kong tramite un contratto, oltre al pagamento in denaro dell’indennizzo di guerra. Cfr. Herbert Franke e Rolf Trauzettel, Storia Universale Feltrinelli, L’impero cinese, Vol.19, Feltrinelli, Milano, 1969.
4. Fra i samurai sostenitori delle idee illuministe e liberali spicca la figura di Fukuzawa Yukichi (1834-1901), autore di Incoraggiamento al sapere (Gakumon no susume) e La condizione dell’Occidente (Seiyo jijo).
5. Il dibattito sul fascismo giapponese (fashizumu ronso) è ancora vivo, pur risalendo alla controversia fra la scuola Koza e la scuola Rono, legata ai socialisti Yamakawa Hitoshi e Inomata Tsunao.

Bibliografia

Arena, Leonardo Vittorio, Samurai, Arnoldo Mondadori, Milano, 2002.
Barzini, Luigi, Giappone in armi, Treves, Milano, 1906.
Halliday, Jon, Storia del Giappone contemporaneo. La politica del capitalismo giapponese dal 1850 a oggi, Einaudi, Torino, 1979.
Martorella, Cristiano, Il concetto giapponese di economia: le implicazioni sociologiche e metodologiche, Atti del XXV Convegno di Studi sul Giappone, Cartotecnica Veneziana Editrice, Venezia, 2002.
Maruyama, Masao, Le radici dell’espansionismo. Ideologie del Giappone moderno, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1990.
Positano De Vincentiis, Fiammetta, Incrociatori per il Sol Levante, De Ferrari, Genova, 2005.
Takeshita, Toshiaki, Il Giappone e la sua civiltà: profilo storico, Clueb, Bologna, 1996.
Yanaga, Chitoshi, Transition from military to bourgeois society, in "Oriens", n.1, vol.8, 1955.
Vantaggi, Adriano, Giappone 1853-1905: Dalla fine dell’isolamento al ruolo di grande potenza, Lassa-Scalese, Genova, 1984.